“Across the universe” (2007) di Julie Taymor

Dopo un film di Julie Taymor viene voglia di mettersi a dieta per qualche giorno: vedere, per un po’, film in bianco e nero, rigorosi piani sequenza, minimalismo, silenzio, non oltre gli ottanta minuti che erano la norma qualche decennio fa, quando il cinema non era ancora obbligato a strappare gli spettatori alla programmazione televisiva.

Però, come avviene con certi cenoni familiari nelle occasioni importanti, ogni tanto una bella scorpacciata bisogna pur farsela, e un film come “Across the Universe” è un’occasione più che discreta per tornarsene a casa barcollando, alla ricerca di un bicchiere di bicarbonato visivo.

La Taymor è una provocatrice barocca che viene dal teatro (e ci torna spesso e volentieri) e che, come spesso accade ai registi di derivazione teatrale quando impugnano la macchina da presa, si scatena nell’esplorazione forsennata di tutti i mezzi che il teatro non offre. In misura minore e modi diversi è quel che è successo, soprattutto nei primi film, a Mike Nichols (e, più di recente, a Sam Mendes e perfino
al nostro Fausto Paravidino), solo che la Taymor sembra aver intenzione di rilanciare di film in film, così che “Across the Universe” è stilisticamente ancora più radicale di “Frida”, che a sua volta esasperava le tendenze all’eccesso che erano già evidenti in “Titus”.

In qualche modo, l’eccesso viene qui in parte giustificato dal genere cui il film appartiene: “Across the Universe” è a tutti gli effetti un musical, costruito su un’ampia scelta di canzoni dei Beatles utilizzate intere o in frammenti, di volta in volta per sostituire una o più battute di dialogo, per reggere un’intera scena, o anche semplicemente per rappresentare un numero musicale che fa parte della narrazione. Il musical è per sua natura un genere a stilizzazione marcata, sia che ci si sbizzarisca nel montaggio sia che ci si valga di coreografie elaborate, sia, infine, che ci si affidi agli artisti della composizione digitale per combinare l’uno e l’altro con le regole e le potenzialità dell’animazione.

Se un problema c’è, è nel materiale di partenza: partendo da Shakespeare o dalla biografia di un personaggio interessante come Frida Kahlo, la Taymor disponeva di basi molto solide su cui costruire le più immaginose stiribaccole visive. Ma i Beatles sono materiale molto più difficile: estrapolate dal loro contesto, le canzoni sono, spesso, solo canzonette e illustrarle in modo significativo non è affatto scontato. È probabilmente per questo che la Taymor ha ambientato il film nell’epoca della contestazione, di Timothy Leary, degli hippies e del flower power, imbastendo la storia dell’amore fra un ragazzo di Liverpool di estrazione proletaria e una fanciulla dell’America benestante, benpensante e benenata.

Ma non basta: le immagini e nuovi arrangiamenti riescono a dare qualche spessore in più ad alcune canzoni d’amore, però poi il film procede per la sua strada senza sviluppare i temi a cui accenna: l’incipit di “Girl” annuncia un amore che si rivelerà molto meno tormentato di quanto non sembri promettere (e non può che ricordare l’apertura del pur sopravvalutato “Moulin Rouge”, che il suo bel po’ po’ di dramma in serbo ce l’aveva), “Something” anticipa la separazione fra i due amanti in un momento che si direbbe prematuro. E “I Want To Hold Your Hand”, resa particolarmente tenera da un contesto omosessuale, introduce un tema che lì, semplicemente, si esaurisce.

“Across the Universe” è un po’ tutto così: funziona bene finché si tratta di descrivere un clima, ma inciampa ogni volta che accenna a voler alzare il tiro, con numeri musicali che esprimono la promessa di un qualcosa senza che il resto del film si senta obbligato a mantenerla. C’è un bellissimo balletto sulla visita di leva dei giovani da spedire in Vietnam, ma la provocazione rimane visiva e si spegne sull’ultima nota. Il grande conflitto fra i due protagonisti si risolve nel fatto che lei decide di impegnarsi a fondo nella protesta, mentre lui si chiude nella sua ricerca artistica e diventa geloso della “causa” che impegna la fidanzata. E quando alla fine, dopo il Vietnam, gli arresti e le sparatorie sugli studenti, questo amore mica tanto contrastato si chiude in bellezza con un grande abbraccio, per giunta sulle note di “All You Need Is Love”, l’impressione è che la Taymor abbia scelto la via più facile, mettendo su un’antologia beatlesiana che ricorda certi greatest hits prodotti dalle case discografiche in vena di strenne di facile smercio, senza minimamente porsi il problema di ricavarne un concept album.

È un limite importante, che forse spiega l’accoglienza nel complesso non entusiasmante che il film ha ricevuto da parte di alcuni critici. Eppure non si può negare che “Across the Universe” resti nonostante tutto uno spettacolo generoso, defatigante in modo piacevole, strapieno di idee, di colori e, ovviamente, di musica. Con un paio di partecipazioni straordinarie che dovrebbero essere apprezzate da chi conosce meglio di me il mondo del rock (ma anche no: ho sentito i recensori del gradevole podcast Filmspotting lamentare che l’apparizione di Bono sia quasi offensiva, e che la presenza di Joe Cocker abbia come unico risultato quello di far risaltare quanto i protagonisti, per quanto talentosi, non siano vocalmente all’altezza di cantanti veri e propri).

Alla Festa del Cinema di Roma, la sala era entusiasta: il ritmo del numero musicale che chiude il film è stato accompagnato tutto dagli applausi, che hanno proseguito lungo tutti i titoli di coda e si sono prolungati per altri cinque minuti a schermo spento, con la Taymor e gli altri membri del cast che si godevano il trionfo. Vedremo se le cose andranno altrettanto bene nelle sale, ma per apprezzare come merita “Across the Universe” è consigliabile dare prima una piccola sfoltita alle proprie aspettative.

“John Sturges” di… ehm… Alberto Farina

Image of John Landis Sono già dieci anni? Pensavo di aver esordito su IACine nei primi mesi del 1998, ma mi è venuto in mente che mi ero già affacciato, un po’ pateticamente, usando l’account di un amico, nel settembre 1997. Ero ancora in Canada, alla fine della lavorazione di “Blues Brothers 2000”, e provai a intervenire qua e là su Usenet, rispondendo a qualche domanda e anche cercando maldestramente di fare pubblicità al mio Castoro su John Landis (pubblicato due anni prima) e a “Sparate sul regista!” che era invece quasi fresco di stampa.Image of Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema di exploitation

Sono passati quindi oltre dieci anni da quei primi timidi post. E sono passati dieci anni anche dall’ultima volta che ho pubblicato un libro tutto mio – voglio dire, non in collaborazione con altri autori. Un po’ di altri impegni, un po’ perché il piacere sempre stimolante di scrivere sul newsgroup finisce in parte per togliere energie anche alla scrittura nella cosiddetta vita reale.

Solo che dopo un po’ torna la voglia di scrivere qualcosa su carta. Il 2007 l’ho iniziato lavorando al più volte rinviato Castoro su Sam Raimi, poi mi hanno chiesto di scrivere prima un libretto più snello (appena 97 pagine, inclusi i frontespizi) dedicato a un regista di cui tutti hanno visto almeno uno o due film ma di cui oggi ben pochi ricordano il nome.

Negli anni Sessanta e fino alla prima metà dei Settanta, John Sturges era piuttosto noto: uno di quegli artigiani solidi, a cui affidare solidi filmoni di avventura contando sul mestiere acquisito in trent’anni di carriera. Come moltissimi grandi professionisti del passato, Sturges era entrato nell’industria di Hollywood dalla porta di servizio, prima come aiuto dell’aiuto dell’aiuto, poi via via come assistente al montaggio e in seguito come montatore in proprio. Nel corso di questa lunga gavetta lavorò fra gli altri con David Selznick e George Cukor, collaborando anche ai primissimi film in Technicolor. Per poi passare alla regia grazie a William Wyler, che se lo portò dietro in Italia durante la guerra e gli consentì di firmare insieme a lui un insolito (e sfortunatissimo) documentario bellico, intitolato “Thunderbolt” e dedicato allo sforzo aereo alleato per favorire la liberazione della penisola dai tedeschi.

Image of Step Right Up!
Tornato negli Stati Uniti, Sturges lavora per diversi anni alla Columbia, subendo come tutti le celebri angherie del boss Harry Cohn. In una sua intervista viene fuori un aneddoto curioso, soprattutto perché raccontato in una versione solo marginalmente diversa da William Castle nella sua autobiografia. Pare che Cohn avesse l’abitudine di offrire ai giovani registucoli un copione orrendo, forse scritto da lui stesso, per vedere se questi avevano un minimo di senso critico. Sia Sturges che Castle raccontano di aver rifiutato, tremando, di cavarne un film – e di aver scoperto dopo di aver fatto la scelta giusta, perché Cohn avrebbe fatto fuori all’istante chiunque fosse stato abbastanza pazzo da accettare un incarico palesemente fallimentare.

Negli anni della Columbia, Sturges gira un po’ di tutto: noir, drammoni, film per ragazzi (anche uno della serie dedicata a Rusty, un eroico cane lupo protagonista di ben sette titoli, uno dei quali diretto proprio da William Castle), western e perfino una estensione a lungometraggio del racconto di Mark Twain “Il ranocchio saltatore”. Poi passa per un po’ alla MGM e realizza lì quello che è considerato da molti il suo film migliore: si tratta di “Giorno maledetto” (Bad Day at Black Rock), con Spencer Tracy, che è una sorta di western moderno e che sfrutta in modo intelligente la moda, esplosa in quel periodo, dello schermo panoramico, usandolo per descrivere spazi vuoti e solitudine, invece delle consuete scenografie esagerate, panorami lussureggianti ed eserciti in marcia.

Più avanti, insieme a colleghi più illustri come Billy Wilder, Sturges sarà tra i primi registi ad abbandonare lo scricchiolante sistema degli studios, assumendosi in prima persona la responsabilità della produzione dei propri film e appoggiandosi a un’organizzazione piccola ma agguerrita come quella dei fratelli Mirisch. Sarà con loro che realizzerà, fra gli altri, film oggi classici come “I magnifici sette” e “La grande fuga“.

L’ultimo film di Sturges è del 1976 ed è una avventura bellica abbastanza divertente. Se n’è parlato qui sul gruppo proprio di recente, quando qualcuno è venuto a chiedere se ne conoscevamo il titolo, che è “La notte dell’aquila” (il thread è questo, ma attenzione perche’ e’ spoilerosissimo). Nel complesso, la sua carriera attraversa oltre quarant’anni di cinema americano, passando dallo Studio System al periodo dei produttori indipendenti, fino ad arrivare alle soglie delle nuove grandi concentrazioni mediatico-economiche avviate alla fine degli anni Settanta e da tempo divenute la norma.

Se rileggo il post in cui cercavo – obliquamente e invano – di far parlare qualcuno del mio libro su Landis, arrossisco. Meglio quindi non cercare alibi, stavolta, e dichiarare sfacciatamente lo spam. Con la parziale attenuante che su questo non becco diritti d’autore. Il mio librino su John Sturges non si trova in libreria bensì in videoteca: viene infatti venduto in allegato a due diversi film di Sturges in DVD – “La grande fuga” e “I magnifici sette“. Entrambi i film sono in edizione a due dischi e pullulano di extra. Non posseggo ancora “I magnifici sette”, ma per “La grande fuga” posso segnalare un corposo documentario sulla lavorazione del film e un ancor più corposo documentario sul vero fatto storico che ispirò il soggetto.

C’è anche un commento audio che, invece, tutto sommato non è imperdibile, fabbricato com’è con un montaggio sicuramente laborioso di dichiarazioni di Sturges stesso e vari altri collaboratori. Spesso ci sono cose molto intessanti, ma non sempre sono puntuali come si vorrebbe rispetto alle immagini che scorrono sullo schermo: molto meglio sarebbe stato recuperare il commento audio realizzato da Criterion nel 1991 per un’edizione in laserdisc che è ormai da anni fuori catalogo e che io ho avuto modo di ascoltare solo grazie a un generoso collezionista finlandese che me ne ha spedito copia.

Image of John Sturges, histoires d'un filmaker
In effetti, gran parte del libro è stato reso possibile proprio dalla generosità di alcune persone incontrate su Internet. Su Sturges, l’unico libro pubblicato finora era quello di un francese che lo intervistò un paio d’anni prima della morte – un lavoro nel complesso un po’ pasticciato e farraginoso da consultare e leggere, ma zeppo di informazioni interessanti e soprattutto di testimonianze di prima mano. Nel complesso, però, le sole fonti disponibili sul regista sono gli articoli pubblicati da quotidiani e periodici nel corso della sua carriera. Finlandese a parte, per me è stato quindi assolutamente insostituibile l’aiuto dello IACiner Alessandro Coricelli, che in seguito a una mia richiesta proprio da queste parti mi ha trovato, in una biblioteca di Los Angeles, moltissimo materiale prezioso. Non ringrazierò mai abbastanza Alessandro per il tempo che mi ha dedicato e ci tengo a farlo di nuovo qui, dove avevo chiesto aiuto: gli devo quantomeno una corposa intervista a Sturges su “Il vecchio e il mare“, una marea di recensioni d’epoca ai suoi film tratte da “Variety” e da “Hollywood Reporter” e diversi articoli di enorme interesse – fra cui quelli in cui si parla di alcuni progetti che Sturges non realizzò mai e che passarono ad altri registi, come “U-Boot 96” e “Lo squalo“.

Molti film di Sturges sono tuttora introvabili in DVD, e si possono rimediare solo in questo modo… oppure ricorrendo al mulo, pur col rischio di trovare solo versioni doppiate in spagnolo. Qualcosina sta uscendo anche da noi (segnalo anzi che si trova da poco in giro “La frustata“, pubblicato da Millennium Storm) ma il grosso rimane inaccessibile. Anche quando si tratta di titoli all’epoca lanciati con un certo sforzo, come “Underwater!“, un improbabile drammone sottomarino con la polposa Jane Russell, noto essenzialmente perché la prima mondiale si tenne sott’acqua, alla presenza di giornalisti muniti di muta, respiratore e pinne… e con l’animazione imprevista di una non ancora famosa Jayne Mansfield. Il film non è niente di che, ma mi incuriosiva assai. Benché non ne esista ancora una versione commerciale, il mulo me ne ha portato uno spezzone che conteneva un logo che mi indirizzato su un forum di appassionati di cinema subacqueo (!), dove ho rintracciato la persona che l’aveva digitalizzato, dopo averlo registrato in televisione, e che è riuscito a passarmene via mail una copia integrale.

Infine, è soprattutto a causa delle affannose ricerche fatte per questo libro che ho scoperto il pluricitato Betterworld, sito che rivende a
fini di beneficienza libri (in inglese) dismessi dalle biblioteche, quasi sempre in ottimo stato, e con spese di spedizione imbattibili rispetto a qualunque altro sito di libri di mia conoscenza.

Image of John Sturges
Basta così. Ho notato che in videoteca il libro è cellofanato coi DVD in modo che la copertina non si vede. Ecco quindi il link alla schedina su Anobii, da cui scopro che il buon Jack Shepherd se n’è già assicurata una copia.

Buona lettura, Jack, e grazie. 🙂

UFV:Ginger e Fred(DVD)/Cuori(DVD)/The Bourne Supremacy(DVD)/The Bourne Identity(DVD) – http://www.albertofarina.tk

“Messa di mezzanotte” di F. Paul Wilson

Image of Messa di mezzanotte

In una ideale aristocrazia dei mostri più classici del genere horror, i vampiri sono da sempre considerati l’aristocrazia. Dracula, il capostipite, è un conte – ma anche i suoi innumerevoli emuli tendono in genere ad avere, nella struttura della società, una posizione dominante.

La premessa di “Messa di mezzanotte”, pur facendo piazza pulita di qualsiasi riferimento diretto a stemmi nobiliari, porta questo principio alle conseguenze estreme: invece di agire al dettaglio, i vampiri hanno portato l’assalto all’umanità su un altro piano scatenando una vera e propria Terza Guerra Mondiale. L’hanno vinta senza difficoltà e adesso si preoccupano solo di mantenere in vita un numero di umani sufficiente a procacciarsi il sangue che è loro necessario per sopravvivere, evitando di trasformarli in ulteriori bocche da sfamare e mantenendo, invece, interi allevamenti di “fattrici”, ossia di donne in grado di produrre nuove prede da svenare.

Ma se il pianeta sembra ormai perduto, un piccolo gruppo di personaggi organizza una faticosa resistenza: il vigoroso padre Joe Cahill, un sacerdote di incrollabile fede cattolica, sorella Carol, una suora che ha imparato a darsi da fare con gli esplosivi (e che con riluttanza non esita a smettere il velo per indossare abiti provocanti in modo da distrarre i suoi avversari) e Lacey, nipote di padre Cahill, lesbica e strenuamente atea.

È una strana combriccola, in cui il quarto improbabile moschettiere è un rabbino mascherato. Ma le vie del Signore sono imperscrutabili e sebbene i vampiri abbiano i tradizionali punti deboli (sono vulnerabili ai pali di frassino, alla decapitazione e ai simboli del cattolicesimo – con grave disagio di chi appartiene ad altre religioni) dalla loro parte ci sono anche schiere di collaborazionisti: sono i cosiddetti “vichy”, umani che accettano di servire i vampiri per una decina di anni dietro la promessa di essere trasformati a loro volta conquistandosi la vita (quasi) eterna.

Quello di F. Paul Wilson non è un romanzo particolarmente raffinato: “Messa di mezzanotte” offre azione, azione, azione dalla prima all’ultima pagina però riesce, a sorpresa, a non essere mai ripetitivo, e soprattutto a giocare con la tradizione in modo intelligente, rispettandone i cardini principali ma in modo niente affatto pigro o acritico.

Si arriva alla fine delle sue oltre 400 pagine senza annoiarsi, sorprendendosi dopo un po’ a credere completamente al mondo che viene descritto e anche alle scelte più improbabili di personaggi non proprio sfaccettati ma nemmeno totalmente di cartone. Accettando tranquillamente quel tipo di eccesso che di solito si è disposti a perdonare alle migliori graphic novels. Una bella sorpresa, valorizzata da una traduzione particolarmente attenta a chiarire, per i lettori italiani, i riferimenti meno immediatamente riconoscibili alla cultura pop americana di cui Wilson è impregnato.


UFV:Ratatouille/P.S.(DVD)/Die Hard:vivere o morire/40
anni vergine(DVD) – http://www.albertofarina.tk

“Lettera agli spettatori” (2007), di Autori Vari

La Festa del Cinema di Roma si è chiusa sabato mattina, con la premiazione dei film elencati da Nick-cola ma anche con un piccolo evento importante: la proiezione di un filmato di sei minuti e spiccioli che costituisce una risposta cortese ma ferma alla cattiva stampa che il cinema italiano continua ad avere. Trovate il link in fondo al post quindi, se volete, potete saltare direttamente questa piccola premessa.

Io bazzico questo gruppo ormai da dieci anni, e mi sono fatto la fama di quello che difende il cinema italiano ad ogni costo. Chi legge i miei post sa che non è vero: che se qualcosa non mi piace non ho problemi a dirlo, ma che mi dà fastidio l’attacco pregiudiziale. Le sciocchezze di quelli che, seguendo una propaganda troppo diffusa per essere casuale, lamentano che il cinema italiano sia solo un magna magna di clientelismi, di assistenzialismo vuoto, di mantenuti di stato.

Credo che nessuna persona sensata possa credere davvero una cosa simile, ma il più delle volte è questione di disinformazione più che di mancanza di intelligenza. E’ per questo che da un annetto, di fronte ad anni e anni di diffamazione sistematica da parte di ignoranti e portatori di malafede, ha cominciato a coagularsi un’iniziativa che mi sembra animata più da un legittimo bisogno di autodifesa che da spirito rivoluzionario. Un gruppo di persone che vogliono cominciare a mettere qualche puntino sulle i, e magari cominciare a fare un po’ la guardia a politici che dicono dicono e di rado fanno davvero qualcosa di concreto.

Si chiamano “Centoautori” e sono partiti in sordina, alla Libreria del Cinema fondata qualche anno fa da Giuseppe Piccioni e da alcuni altri cineasti o appassionati o studiosi (a memoria: Ludovico Einaudi, Jasmine Trinca, Domenico Procacci, Flavio De Bernardinis e altri). Poi hanno cominciato a crescere, diventando un movimento, riscoprendo il valore della collaborazione, del dialogo fra colleghi, dell’azione di gruppo. E senza la colorazione politica di entità come, ad esempio, l’ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici). Hanno anche un sito: http://www.100autori.it.

Qualche tempo fa, in una serata condotta da Iacona e trasmessa da Raitre, un po’ di nodi sono venuti al pettine della prima serata televisiva. Se ne parlò su un thread lanciato da uno degli sporadici, ma sempre illuminanti, post di Ernesto Gastaldi (uno dei grandi sceneggiatori di quando c’era ancora una industria del cinema italiano) e che potete recuperare qui. Ricordo che quella sera Piccioni aveva, con accorata cortesia, fatto notare che Rutelli non aveva dato gran seguito alle vaghe promesse di impegno del governo per raddrizzare un po’ di storture nella nostra industria cinematografica.

Sono passati due mesi, e non si sono viste grandi novità, così i Cento Autori hanno realizzato un video che suggerisco a tutti di vedere. Merita, e potrebbe cominciare a rettificare un po’ di cretinate che si continuano a sentire in giro.

Qui sul gruppo stiamo spesso a fare i confronti fra l’industria del cinema italiano, ridotta a poca cosa, e a quella del cinema francese, che ha ricominciato da tempo a imporre nel mondo prodotti commerciali di ottima qualità. Sono i frutti di due politiche completamente diverse: filotelevisiva da noi, non filotelevisiva oltre le Alpi. E non è solo una questione di cultura: è anche una questione di denari, perché un cinema in buona salute come quello francese è un moltiplicatore di denaro. Oltre che di cultura.

Il video è questo. Poi, se mai, ne parliamo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=xOyKExqpvjo&color1=0xe1600f&color2=0xfebd01&border=1]

“The King of Kong: A Fistful of Quarters” (2007) di Seth Gordon

Perché ancora oggi ci ricordiamo chi era il Barone Rosso? Perché è l’aviatore che, nel corso della prima guerra mondiale, riuscì a buttare giù da solo più nemici di chiunque altro. 86 aerei abbattuti, un numero incredibile, soprattutto se si pensa che il secondo in classifica ne aveva totalizzati poco più di venti.

Relata refero: sono in treno e non ho modo di controllare, ma più o meno sono questi i dati snocciolati da uno dei protagonisti di questo spassoso documentario, nel corso di una spericolata analogia. Il Barone Rosso era, all’epoca, il numero uno dell’aviazione teutonica per mira, riflessi, coordinamento fra corpo, mente e strumentazione. Più o meno come il campione mondiale di Donkey Kong.

Chi ha all’incirca quarant’anni, Donkey Kong lo ricorda sicuramente: grossomodo coevo del più celebre Pac-Man, era quel videogioco in cui un omarino baffuto deve arrampicarsi su per complicate strutture per salvare la sua ragazza da un gorilla che l’ha rapita – schivando, nel contempo, i barili che lo scimmione gli lancia addosso dalla vetta, ma anche superando altre insidie come le palle di fuoco, le molle rimbalzanti e gli ascensori. Quelli della mia generazione ci hanno giocato un po’ tutti: i videogiocatori successivi lo hanno conosciuto soprattutto nelle incarnazioni e varianti successive, quando l’omarino baffuto è stato battezzato Super Mario e dotato di un fratello (Luigi), creando la coppia dei Super Mario Bros. – portata addirittura sullo schermo in uno dei primi, famigerati, adattamenti per il cinema di videogiochi di successo.

Per la maggior parte di noi, l’era dei videogiochi da “arcade” ha poi lasciato spazio ad altri passatempi, per molti è andata ad arricchire il patrimonio di memorie nostalgiche dell’adolescenza. Per qualcuno, però, Donkey Kong è rimasto un’attività divorante, un’ossessione, un motivo di vita e di affermazione personale. Esistono persone che posseggono, nel loro garage, le pesanti cabine originali, rilevate dalle sale giochi e mantenute amorosamente in funzione per due decenni. Persone che ancora oggi sono capaci di giocare per ore, all’inseguimento della “partita perfetta”, quella in cui riesci a saltare tutti i barili, a spegnere a martellate tutte le palle di fuoco, a prendere tutti gli ascensori e arrivare al ventiquattresimo, impossibile, schermo del gioco, il cosiddetto KILL SCREEN, quello in cui la memoria del computer non basta più a gestire il gioco e l’omarino baffuto perde, automaticamente, una vita dopo pochi secondi, qualsiasi cosa stia facendo, anche senza barili nei paraggi.

C’è gente che da un quarto di secolo tiene in piedi un’organizzazione per consentire i campionati di Donkey Kong, c’è chi passa ore e ore a guardare vhs su cui videogiocatori di tutti gli Stati Uniti hanno registrato le riprese delle loro partite, per controllare che non ci siano trucchi e, nel caso, convalidare i record che i proponenti sostengono di aver conseguito. E c’è chi sulla propria posizione di campione rimasto imbattuto per vent’anni ha costruito la sua vita e il suo successo personale, e anche un codazzo di fedeli accoliti disposti a tutto per poter toccare al maestro il lembo del mantello.

“The King of Kong: A Fistful of Quarters” è la storia di questo super campione, e di uno sfidante timido che tenta di battere il suo record di ottocentomila punti e rotti – non tanto per il gusto di sconfiggere la persona, quanto per dimostrare a se stesso di poter essere primo in qualcosa, dopo aver fallito come musicista, come giocatore di baseball e di basket e come imprenditore. La riuscita e il fallimento della propria vita, dopotutto, è in una certa misura una questione personale, e se non si è ottenuto il successo nei campi in cui si misura la gente normale, tutto sommato, non si vede perché non si dovrebbe poterlo fare cercando di salvare una ragazza di pixel da un gorilla di pixel, saltando migliaia di barili fatti di pixel.

Ci sono di mezzo questioni di regole: un record documentato da un video vale come un record conseguito in pubblico, durante un torneo? Le macchine sono tutte uguali o ce ne sono alcune su cui è più o meno facile giocare? Non è che si possono taroccare i software? E’ lecito imprecare durante la partita?

E poi ci sono questioni più profonde: la paura e il desiderio del confronto, il potere delle amicizie, della popolarità, del denaro, di un titolo acquisito, il bisogno di dimostrare qualcosa a chi ti sta intorno perché questo significa dimostrarlo a se stessi. Oltre alle antiche considerazioni che solo chi ha videogiocato a lungo può forse davvero capire: l’ossessione della sfida, l’alienazione che si cura e si alimenta allo stesso tempo, la semplificazione elettronica di tensioni che nella vita non si presentano mai in schermi ripetitivi, l’ipnotico sprofondare in ragionamenti che dopo un po’ cominciano a svilupparsi secondo le logiche del gioco.

C’è tutto questo e molto altro, in questo film, che riesce a far ridere senza diventare irridente, senza pretendere di giudicare un gruppo di “white and nerdy” che hanno trovato una loro ragione di vita in una disciplina che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E’ al tempo stesso una parodia dei documentari d’inchiesta e un’inchiesta vera e propria, avvincente, coinvolgente e, nei suoi 79 minuti, assolutamente impeccabile. Se avete avuto vent’anni negli anni Ottanta, è roba da non perdere: ma lo è anche se avete qualche passione che monopolizza una buona parte del vostro tempo libero e che a volte diventa per voi più maledettamente seria di quanto non meriterebbe. Come ad esempio scrivere su un newsgroup.

Roma, Festa del cinema, 25 ottobre 2007

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=YPLjXjObEms&rel=1]
Il trailer del film su YouTube