Franco Zeffirelli e il suo cinema popolare

Verso la fine del 2000, per un’altra edizione ad Assisi del suo Primo piano sull’autore, Franco Mariotti chiese anche a me qualche paginetta sul regista scelto per l’omaggio di quell’anno. Mi parve una buona occasione per fare i conti con i pregiudizi che a lungo avevo nutrito nei suoi confronti e che non erano affatto stati dissipati quando lo avevo intervistato sul set romano di Otello. Cercai di essere sincero fino in fondo, pur temendo un poco la reazione del regista, che sapevo fumantino al punto da non aver lesinato in passato querele a critici che avevano osato esprimere posizioni a lui non gradite. Mi andò bene: qualche mese dopo mi arrivò a casa un cartoncino di auguri con la foto di un’effigie in ceramica di Giuseppe Verdi e due righe autografe che cito a memoria: “Caro Farina, troppo buono. Grazie, Franco Zeffirelli”. Ne vado ancora orgoglioso ed è anche per questo che, all’indomani della scomparsa del regista, ripubblico queste righe a mo’ di coccodrillo scritto in tempi non sospetti e, in qualche modo, approvato dal bersaglio.

Per molti di quelli della mia generazione, il primo incontro con Franco Zeffirelli è stato a scuola, con la proiezione in classe di Fratello Sole, Sorella Luna organizzata dal Don Gino di turno: un’occasione d’oro per passare due ore e un quarto vedendo un film invece che facendo lezione, e a quell’età scusate se è poco. La proiezione si teneva in una classe opportunamente sparecchiata, utilizzando un vecchio proiettore in cui scorreva quasi sicuramente una delle pellicole a sedici millimetri distribuite a prezzi più che abbordabili dalla San Paolo: e ricordo che il film, al di là dell’eccitazione di tutti per l’insperata fuga dalla routine scolastica – per giunta con la benedizione degli altri insegnanti – veniva seguito con particolare rispetto, senza le battutacce e le risate che avrebbero accompagnato in un’occasione analoga un film come Il gattopardo.

Nel 1977, i coetanei che non avevano insegnanti di religione cosi pieni di iniziativa non sarebbero sfuggiti comunque al primo passaggio di Gesù, colosso televisivo in quattro puntate strategicamente programmato in modo da culminare proprio nella domenica di Pasqua: un fenomeno mediatico favorito dagli ultimi anni di monopolio RAI sullo spettacolo televisivo ma che si dimostrava in grado di eclissare i fasti ancora recenti di Sandokan. È vero che il duello fra Kabir Bedi e la tigre restava un caposaldo nei giochi con gli altri bambini, e che eravamo stati molti di più a completare l’album Panini dello sceneggiato salgariano che di quello biblico. Ma Robert Powell divenne per tutta quella generazione il volto ufficiale di Gesù Cristo e Franco Zeffirelli era l’Evangelista cinematografico per eccellenza. Una volta scoperto che i suoi film precedenti erano due acclamate riduzioni da Shakespeare (di Camping si sentiva parlare poco) non ci voleva altro per associare Zeffirelli alla figura di un dispensatore ufficiale di cultura classica: una cultura peraltro niente affatto pesante, perché i film si facevano seguire con passione e perfino con un certo divertimento.

Questo modello entrò in crisi a cavallo fra quel decennio e il successivo. Nel 1979 e nel 1981 Zeffirelli realizzava – caso più unico che raro fra i registi italiani – due fortunatissimi film commerciali completamente americani non solo dal punto di vista produttivo ma anche dell’ambientazione. I giornali ne parlarono parecchio, ma si trattava di drammoni strappalacrime, di quelli che piacciono alle mamme ma da cui noi ragazzini ci si teneva alla larga: The Champ – Il campione, remake del classico di King Vidor, aveva in inglese perfino il titolo e lanciava l’effimera carriera del piagnucoloso Ricky Schroeder. Amore senza fine era l’adattamento di un romanzo di passioni adolescenziali e anche se la presenza di Brooke Shields cominciava a stuzzicare l’appetito di uno spettatore quindicenne ci voleva altro per convincerlo ad entrare al cinema.

A causa di questo cambio di marcia, unito forse a una reazione naturale contro un autore conosciuto fra i banchi, cominciammo a sviluppare per Zeffirelli una certa incuriosita diffidenza. Si cominciavano a leggere le recensioni sui giornali, alla ricerca di altre campane non necessariamente allineate con quelle degli insegnanti: se Il campione era stato apprezzato con qualche riserva, di Amore senza fine tutti i critici d’oltreoceano avevano detto peste e corna scatenando da parte del regista reazioni vivacissime golosamente riportate dalla stampa. L’accusa per l’America era di voler rifiutare la critica feroce sferratale da un regista non americano: solo che anche in Italia il giudizio d’appello sarebbe stato tutt’altro che tenero. E questo regista italiano di film che trionfavano ai botteghini americani prima di rimbalzare in Italia, che cosa era? Un Maestro, come lo chiamavano gli intervistatori alla televisione, o un cinico mercante di emozioni da fotoromanzo, come dicevano i critici sui giornali? Il fatto che potesse lavorare con successo con gli americani rivelava il suo spessore spettacolare oppure il suo essere limitato a un cinema che ci stavano insegnando a disprezzare come popolare?

Due anni dopo, La Traviata avrebbe ulteriormente intorbidato le acque. Messa fra parentesi l’America, il regista tornava ad ispirarsi a fonti classiche e universalmente riconosciute e dopo due Shakespeare, una vita di San Francesco e il Nuovo Testamento, affrontava l’Opera con la prima parte di un dittico verdiano che sarebbe stato completato dall’Otello (allo stesso tempo il terzo ma non ultimo Shakespeare nella filmografia zeffirelliana). Però tanta critica continuava a storcere il naso: gli esperti melomani lamentavano tagli ed arbitri narrativi, altri accusavano il film di essere troppo curato dal punto di vista formale a scapito della vera emozione. E ormai ci sembrava chiaro: Zeffirelli era una via di mezzo fra un calligrafo e un arredatore senza alcun senso della misura, più preoccupato dello sfarzo della messa in scena che di valorizzare il testo rappresentato oppure la musica.

Con queste idee in testa mi presentai nel 1986 a Cinecittà per un’intervista al regista impegnato sul set abbagliante del suo Otello. Avevo cominciato a pubblicare articolini e intervistine sul mensile “Primavisione”. La Traviata non l’avevo vista ma sapevo in che termini se ne era parlato ed ero curioso di sentire finalmente il diretto interessato. Che, dal vivo, confermò la sua vis polemica: dopo una serie di domande tecniche sulle esigenze dell’adattamento e sul rapporto coi produttori (la discussa coppia di cugini israeliani Menahem Golan e Yoram Globus, che sembravano accingersi a conquistare il mondo con la loro avventurosa Cannon) gli chiesi di rispondere ai critici che lo accusavano di soffocare personaggi e vicende col manierismo di scenografia, costumi e fotografia. E la risposta fu immediata e senza mezzi termini:«Sono una massa di cretini in malafede, venduti alla corruttela e al clientelismo».

Ricordo di aver trascritto e pubblicato il resto della risposta parola per parola, senza tagli o addolcimenti, affascinato dalla veemenza delle parole di Zeffirelli. Che sosteneva di essere disprezzato dai critici solo per motivi di fede politica, attaccava a spada tratta il Pasolini regista (riconoscendone tuttavia la grandezza come poeta) e si dichiarava vendicato dal pubblico: «Questi imbecilli negano la violenza del mio successo (…) la gente ha pianto vedendo Traviata ed è assurdo accusare il film di essere un esercizio di arredamento».

Quell’incontro sarebbe rimasto associato nella mia memoria con impressioni contrastanti. La foga di Zeffirelli nel rispondere (e quel po’ di preconcetti che avevo assorbito da recensioni di film che non avevo visto) mi facevano sospettare che ci fosse in quelle parole un bel po’ di mania di persecuzione. Però era vero che leggendo molti di quegli articoli che il regista accusava di pregiudizio, si trovavano espressioni come«la fotografia troppo bella di Ennio Guarnieri» e frasi che spesso trasformavano acrobaticamente in accusa ciò che nella sostanza era una lode all’opulenza visiva dei film di cui si parlava. Due anni dopo, alla proiezione veneziana di Il giovane Toscanini, molti dei critici presenti in sala avevano fischiato il film senza ritegno fin dal momento in cui le luci in sala si erano spente e sullo schermo avevano cominciato a scorrere i titoli di testa. Ma anche se alla fine della proiezione condividevo l’idea che si trattasse di un film niente affatto riuscito, il fatto che il verdetto fosse stato dato per scontato a priori mi sembrava piuttosto disonesto. D’accordo che il gioco al massacro era stato scatenato dalla polemica su L’ultima tentazione di Cristo: proiettato proprio in quei giorni alla Mostra, il film di Martin Scorsese aveva scatenato proteste e tentativi di picchettaggio e lo stesso Zeffirelli si era parecchio sbilanciato in un attacco che prescindeva anch’esso dalla visione dell’oggetto del contendere. Però un film bisognerebbe riuscire a vederlo per quello che è, possibilmente scindendolo dal modo in cui la personalità dell’autore si estrinseca in campi esterni a quello del cinema.

Da allora sono passati più di dieci anni, le polemiche sono rimaste a impolverarsi sugli articoli di colore dei quotidiani e l’inimicizia con la critica sembra – se non spenta – sopita come un vulcano dopo l’eruzione. In tutto questo tempo i giornali si sono occupati più dello Zeffirelli politico e del tifoso, mentre il regista continuava senza sosta ad attingere al repertorio classico -passando dallo Shakespeare di un Amleto, meno letterale e più interessante della successiva versione di Branagh, al Verga di Storia di una capinera e alla Charlotte Bronte di Jane Eyre. Fino al nuovo trionfo internazionale di Un tè con Mussolini, basato su un’autobiografia significativamente inedita nel nostro paese e particolarmente fortunato negli Stati Uniti dove registra il record degli incassi per singola sala.

Oggi di Zeffirelli nessuno sembra aver più paura di dire bene. Forse, col tempo, si è riusciti a perdonargli di non essere Luchino Visconti pur avendone ereditato il gusto per la ricostruzione storica, e non se ne parla più come di una figura da liquidare ideologicamente per il suo rifiuto di far sua una visione problematica e magari politicizzata del materiale scelto come fonte di ispirazione… insomma, come un Autore da non prendere sul serio. Non più, forse anche perché ormai si comincia a capire anche dai critici più severi che il cinema va fatto pensando innanzitutto al pubblico; e che se è vero che è stata la televisione ad assassinare l’industria cinematografica italiana, la stima accordata a scatola chiusa a film troppo sobri, troppo minimalisti, troppo di sottrazione è stata un suo inestimabile alleato nel disaffezionare il pubblico dal prodotto nazionale spingendolo sempre più fra le braccia degli americani. Di questi peccati d’orgoglio, sicuramente, Zeffirelli non si è mai macchiato: risolutamente e orgogliosamente popolare, il suo è sempre stato un cinema destinato non alle antiche élite intellettuali, ma alle nuove moltitudini acculturate emerse nel secolo della cultura di massa. Un cinema colto ma attento allo spettacolo, che divulga senza volgarizzare e non dimentica una lezione che gli americani impartiscono da sempre e che da noi, con l’eccezione di autori come Tornatore o Bertolucci, è regolarmente inascoltata: il grande cinema popolare deve avere il fegato di essere, come dicono di là dell’oceano, larger than life.

Franco Zeffirelli e il suo cinema popolareultima modifica: 2019-06-16T15:50:34+02:00da albertofarina
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