Dieci minuti con Joe Dante

Dieci minuti con Joe Dante

Abbastanza curiosamente, in venticinque anni che faccio questo lavoro non mi era ancora mai capitata l’occasione di intervistare Joe Dante. Ne avevo parlato spesso con John Landis, che è da sempre suo buon amico e che qualche anno fa lo accusava di avere, come unico limite, un’eccessiva mancanza di ambizioni rispetto alle sue potenzialità… un giudizio che poi era stato felice di rimangiarsi in occasione della prima stagione di “Masters of Horror”: sia l’episodio di John che quello di Dante erano da segnalare fra i migliori della serie, “ma il mio”, dichiarò John al festival di Torino, “è deliberatamente cretino, mentre Joe ha colto l’occasione per dire qualcosa di importante”. Questo qualcosa di importante era il gustosissimo Homecoming (qui il mio post in proposito su it.arti.cinema) una storia di zombi che era anche una ferma presa di posizione contro le scelte di Bush e della sua amministrazione – realizzata per giunta in un periodo in cui scagliarsi contro Bush non era affatto scontato.

All’epoca, con Dante riuscii a scambiare non più di un saluto quando John me lo presentò durante una prima colazione – e anche quando, una delle sere, partecipai a una cena con i Masters of Horror presenti a Torino, preferii rimanere quasi sempre in silenzio a godermi gli scambi di battute fra due parlatori accaniti come Landis e Dante – anche se ricordo che parlammo un po’ di Doppio Audio, il programma che facevo allora per Raisat Cinema, e che a Dante l’idea era piaciuta molto. Dubito che sia partita da lì la sua iniziativa, annunciata qualche tempo dopo, del meraviglioso sito Trailers from Hell, in cui vecchi prossimamente di film di serie B sono commentati in audio da celebri registi o sceneggiatori – ma mi piace pensare che fra le due iniziative qualcosa in comune ci fosse.

Alla fine, l’occasione per fare due chiacchiere con la calma (molto relativa) dei junket festivalieri, è capitata a Venezia. Partendo da The Hole, che per Dante segna un ritorno al cinema a sei anni dal devastante braccio di ferro con la Warner Bros, che fece di tutto per rovinargli fra le mani un film come Looney Tunes Back in Action, un progetto che sarebbe stato perfetto per il regista, se solo gli fosse stato consentito di realizzarlo a modo suo. “The Hole”, che dovrebbe uscire in Italia il prossimo marzo, è una sorta di ritorno ai temi che Dante frequentava negli anni Ottanta: un cinema fantastico per ragazzi, fra commedia, thriller ed effetti speciali. Con, stavolta, l’esaltatore di sapidità del 3D. Qui di seguito, la trascrizione dell’incontro, durante il quale è Dante stesso a prendere la parola per primo. Va precisato che l’intervista è stata raccolta il giorno prima della proiezione del film al Festival, perché questa era prevista il penultimo giorno della Mostra. Per Dante, membro della giuria, sarebbe stato vietato parlare coi giornalisti nel giorno che precedeva la premiazione – e quindi tutti siamo stati costretti a intervistarlo, per così dire, a tentoni.

[The Hole] Non l’ho nemmeno ancora visto io in 3D – tranne una volta, ed era con una colonna sonora sbagliata. Questo film è stato appena finito e questa proiezione Veneziana sarà la prima proiezione pubblica in assoluto… non abbiamo nemmeno fatto un’anteprima, per cui non ho idea di come andrà. È un film horror un po’ rétro… un film un po’ anni Ottanta su una famiglia, una madre e due ragazzini, che traslocano in una nuova città… non sappiamo esattamente perché hanno dovuto traslocare ma un motivo c’è… e nella nuova casa scoprono, sul pavimento della cantina, una porta con dei lucchetti. Qualsiasi ragazzino, che appartenga a un film o alla realtà, cercherebbe di aprire quella porta… e infatti lo fanno… e non posso dirti cosa c’è dentro.


Trovo interessante il fatto che tu abbia cominciato lavorando con Corman, per passare poi alle major – e ora sia tornato a lavorare come indipendente. Mi illustri un po’ questa traiettoria di…

Dici del declino della mia carriera? (ride)

Non parlo affatto di declino. Ma ieri mattina Romero mi ha detto di aver fatto la stessa scelta, per ottenere un po’ di libertà creativa dopo aver lavorato con la Universal…

È esattamente questo il punto. Penso che qualsiasi cineasta con cui dovessi parlare oggi… ti diranno che se devono fare un film con gli studios… la frase è… “vengono pestati”. E questo significa in sostanza che hanno una serie di livelli di management che gli dicono come fare o non fare i loro film. E in genere non sono persone che ne sanno più di te su come si fa un film. Per cui diventa molto frustrante. La cosa buona dell’essere indipendenti è che i film costano meno e c’è più libertà. Quando ho fatto gli episodi di “Masters of Horror”, l’obiettivo principale di quella serie era proprio lasciare che potessimo lavorare senza interferenze… non c’erano note da scrivere, anteprime… c’era solo “fare il film”. Ed è quello che piace a chi fa cinema: vogliono potersi esprimere. Per cui, scopri che l’atmosfera dei grossi studios, al giorno d’oggi, è molto restrittiva… e i cineasti gravitano attorno a posti dove possono avere più libertà di esprimersi.

Parliamo del 3D, la grande speranza di questi mesi, ma anche qualcosa che rende i film più costosi. Non c’è il rischio che questo spinga l’industria ancora di più in mano alle major?

No, non è vero. Il nostro è un film indipendente e non è costato molto. Quando ho suggerito di farlo in 3D i produttori ci hanno pensato un po’ su, si sono fatti due conti, si sono accorti che era solo un 20 per cento in più di quello che si sarebbe dovuto spendere e così hanno deciso di accettare. Penso che ci saranno sempre più film indipendenti girati in 3D – non è poi così costoso… ci sono questioni legate alla postproduzione che costano di più, ma fare il film è molto simile a farne uno normale, ora che le macchine da presa sono piccole… le telecamere digitali. Le cineprese 3D erano enormi, scomode e la scelta degli obiettivi era limitata… ma ora… e sono sicuro che quando vedremo “Avatar” sarà un grande film… io tendo a non vedere il 3D come una limitazione, penso che…. ti dia uno strumento in più per raccontare la storia.

Questo ci porta alla prossima domanda. Come regista, c’è qualche differenza nello scegliere l’inquadratura o organizzare una scena per girare in 3D invece che per uno schermo piatto, oppure non ci sono differenze sostanziali? Non pone nuovi problemi espressivi come accadde quando il cinema acquistò il sonoro, oppure il colore?

Beh, in genere i film li giri comunque in profondità – imposti la scena e cerchi di rendere interessante la composizione dell’inquadratura… quando lo fai in 3D sei molto più consapevole delle relazioni spaziali fra i personaggi e il dramma che si sta svolgendo… È un po’ come mettere in scena una rappresentazione teatrale, perché muovi le cose all’interno di un riquadro, sempre ben cosciente di dove stia la convergenza oculare, dove sia l’immagine all’interno del quadro… sta in primo piano, sta dietro, sta sopra… e puoi fare alcuni gesti molto drammatici col modo in cui imposti una scena in 3D. Questo film l’abbiamo fatto in 3D sapendo che in molte situazioni sarà visto in 2D… io preferisco la versione 3D perché è quella che avevo in testa mentre lo facevo, ma quando lo vedo in 2D va benissimo lo stesso.. a differenza di tanti film, non sembra un film 3D classico, con roba che ti viene gettata contro per tutto il tempo, che ti fa pensare “questo ovviamente era in 3D”. Questo, io credo, è più un film normale.


Il grande cambiamento nel ritorno al 3D è che oggi molti registi affermati ne sono attratti – al contrario degli anni Cinquanta in cui, in pratica, solo Hitchcock si fece tentare dal mezzo… certo, Jack Arnold era un grande, ma certo non era considerato un autore…

Beh, verso la fine, ad esempio, ci furono “Baciami Kate”, diretto da George Sidney, “Hondo” diretto da John Farrow… i grandi registi cominciavano a gravitare attorno al 3D verso la fine del ciclo. Ma ormai era troppo tardi, errori di presentazione avevano condannato il 3D… la gente non aveva più voglia di andarci, gli veniva mal di testa, e avevano avuto tante esperienze negative che la cosa semplicemente andò a morire. Qui credo che verrà fuori che i registi importanti sono attratti dal 3D. Potranno decidere di NON girare in 3D perché è una decisione… è uno strumento, come il colore, il suono… vuoi fare il film in bianco e nero o lo vuoi fare a colori? Ci sono motivi per fare cose del genere. E credo che il 3D sarà ritenuto adatto a certi tipi di film e non ad altri.

A cosa pensi che si debba questo spostamento, questa volta? Perché stavolta quasi tutti i registi più celebri sono interessati fin dall’inizio al 3D? Dipende solo dal fatto che la tecnologia è davvero matura?

La tecnologia è migliorata al punto che non è più un ostacolo nel realizzare un film. Puoi fare il film che desideri senza scendere a compromessi per il fatto che lo giri in 3D, come accadeva un tempo. È anche perché c’è un bisogno di riportare più emozione all’idea di andare al cinema. Soprattutto in America, la maggior parte della gente che va al cinema ha meno di 25 anni. Per portare in sala qualcuno di più anziano gli devi dare qualcosa in più. Penso che sia stato dimostrato che molti film incassano in proporzione di più quando sono in 3D rispetto a quando sono in 2D.

Torniamo a “The Hole”, un film che, per tua stessa ammissione, riporta ad atmosfere un po’ anni Ottanta… genere fantastico, ragazzini protagonisti… è una scelta voluta di ritorno al passato?

Più che voluta e consapevole, si è evoluta in questo senso. Quando mi è stato data la sceneggiatura, ovviamente, ho detto: “Che? Un altro film di ragazzini ed effetti speciali? Non mi va di farlo”. Poi l’ho letta ed era… buona. E… beh, i progetti li scegli sulla base della loro qualità. Di qualità non ne vedevo molta in altre sceneggiature che mi venivano proposte, e così… mi sono detto: “questa la so, so che so farla, so come farla e penso di poterci mettere qualcosa”. Perché penso che nessun regista dovrebbe dirigere un film che non andrebbe a vedere… penso sia un modo per farli male – è così che escono i film brutti. Devi fare film che per te significano qualcosa, fare in modo che per te siano importanti. Così sono salito a bordo e… credo che rientri nella grande tradizione dei film che facevo negli anni Ottanta.

Ti conosco come un appassionato e un conoscitore del grande cinema del passato. Cosa pensi dell’iniziativa di aggiungere il 3D a classici girati originariamente per il tradizionale schermo piatto? Non parlo dei film di animazione digitale, naturalmente, visto che per quelli esiste, pur sul piano virtuale, l’informazione per generare la seconda immagine…

No, no, intendi la conversione. In effetti ho visto un test fatto su “Cantando sotto la pioggia”, in 3D. E… non ci siamo ancora, alcune cose non sono ancora a punto… ma era… piuttosto affascinante. Era un po’ come… beh, penso alla prima volta che ho provato l’hashish… e mi sono proiettato un film che avevo già visto molte volte, la mia copia 16mm… e tutto sembrava in 3D! E io pensavo: “Non ho mai visto una cosa simile… spettacolare! Ora posso rivedere tutti i film che mi sono piaciuti fumando questa roba è sarà una figata!” In realtà la cosa mi funzionò solo per un film – dopo un po’ era… beh, no, non funziona così. E comunque dopo non te lo ricordi. Però… però credo che ci saranno film convertiti al 3D… “Casablanca” verrà portato in 3D… e non penso che la cosa li danneggerà. Penso che sarà solo un altro modo di guardarli. Perché il test su “Cantando sotto la pioggia” era piuttosto impressionante.

Per cui non è come la colorizzazione dei film in bianco e nero…

No, no… perché lì aggiungi… con la colorizzazione stai aggiungendo un altro strato di decisioni a decisioni che sono state prese molto tempo fa. Decido che questa tenda debba essere viola. Capisci? E poi, quando guardi i film colorizzati, all’improvviso ti metti a guardare i fiori in mezzo al tavolo e non le facce degli attori. Anche la colorizzazione è molto migliorata, la qualità è un’altra – ma c’è sempre qualcosa di sbagliato, non è il modo in cui il film era stato fatto. L’immagine 3D è… è quasi come se tu fossi sul set mentre si fa il film… è sempre lo stesso film, solo che va in profondità. Per cui… vabbe’, sono sicuro che il Sindacato registi avrà qualcosa da ridire ma… ma a me è parso molto interessante.

Cinque minuti con John Lasseter

Cinque minuti con John Lasseter


Nel gergo del giornalismo cinematografico, per “junket” si intendono maratone di interviste organizzate con precisione paramilitare, durante le quali il personaggio di turno viene praticamente inchiodato su una poltrona, con una telecamera e un microfono puntati addosso, e incontrano una batteria di intervistatori che si succedono sulla poltrona di rimpetto. Telecamera e operatori sono gli stessi, così si risparmia sul tempo di illuminazione e di preparazione dell’inquadratura. E i minuti per l’incontro sono contati: in genere cinque o sei, anche se in rari casi si riesce a rubacchiare un minuto in più o in meno. È lo speed dating dell’intervista, c’è appena il tempo di farsi dire due parole standard sul film per un servizio TV di un paio di minuti. Come diceva un ufficio stampa con cui ho parlato nei giorni di Venezia, non è nemmeno una vera intervista, è pura promozione.

C’è chi si sottopone ai junket di malavoglia, e sfrutta sempre le stesse cinque/dieci risposte prefabbricate per disimpegnarsi (tanto, si sa, gli intervistatori cinematografici sono per il 98% degli incompetenti che non sanno inventarsi una domanda decente nemmeno per salvarsi la vita) e chi è diventato bravissimo a sfruttarne al meglio i tempi per riuscire a comunicare qualcosa che dona, almeno, a chi lo intervista, l’illusione di avergli dato qualcosa di personale.

John Lasseter lo avevo incontrato parecchi anni fa a un altro junket, quello per “Toy Story 2”, e già allora, nei sette minuti che avevamo avuto a disposizione, mi aveva dato risposte articolate, interessanti e appassionate. E anche qui a Venezia, nonostante l’argomento non fosse strettamente un fim bensì il Leone d’oro alla carriera (sua e della sua Pixar) e un nuovo titolo di cui tuttavia non sapevo praticamente nulla, l’incontro è stato prezioso. Anche perché si è parlato di un argomento avviato qualche mese fa con Katzenberg, ossia il passaggio a 3D di film d’animazione concepiti, originariamente, per essere fruiti sul tradizionale schermo piatto. Le righe che seguono sono un junket, più che un’intervista, ma trattandosi di Lasseter mi sembra che valga comunque la pena di trascriverle.

In genere ci vuole una vita a ottenere un Leone d’oro. Tu lo hai avuto dopo quindici anni… anche se è vero che, nell’animazione, quindici anni sono un sacco di tempo. Che effetto ti fa?

Ricevere il Leone d’oro alla Mostra di Venezia è stato molto emozionante. Ne sono particolarmente orgoglioso perché non l’hanno dato solo a me, ma a me è alla Pixar. È la prima volta nella storia che viene dato il premio a uno studio. Perché noi siamo quello. Non siamo solo un gruppo di individui, siamo uno studio. Lavoriamo a strettissimo contatto e siamo estremamente concentrati nello sforzo di fare ottimi film.

Mi incuriosisce la vostra iniziativa di rendere tridimensionale alcuni vostri film che non sono inizialmente stati realizzati a tre dimensioni. Il fatto che siano generati al computer vi permette di avere tutta l’informazione necessaria per realizzare una versione 3D?

Beh, per come la vediamo noi, facciamo da sempre film in tre dimensioni, solo che fino ad oggi li guardavamo con un occhio chiuso. Questo perché all’interno del computer c’è un ambiente davvero tridimensionale all’interno del quale facciamo tutti i nostri film. La cosa eccitante è che, siccome si tratta di dati, di dati informatici, possiamo tornarci dentro, aggiornare i dati al nostro attuale sistema operativo. A quel punto siamo in grado di produrre un altro punto di vista al’interno della stessa esatta scena. Non abbiamo cambiato una sola cosa in “Toy Story” o “Toy Story 2”. È esattamente lo stesso film, solo che lo puoi vedere in 3D. Ed è un vero divertimento, è emozionante, piace molto anche a me perché la gente può di nuovo vedere “Toy Story” e “Toy Story 2” sul grande schermo, ossia nella modalità per cui erano stati pensati.

Mi intriga molto l’idea che la prima mossa di John Lasseter, il fondatore della Pixar, una volta entrato in Disney, sia stata produrre un film di animazione tradizionale dopo che la Disney stessa, sulla scia del successo travolgente della Pixar, aveva abbandonato questo sistema.

Beh, tutta la mia carriera si deve ai film di Walt Disney. Sono stato tirato su da artisti Disney, ho lavorato come giovane animatore agli studi Disney, poi ho cominciato a interessarmi di animazione al computer, cosa che mi ha portato nel nord della California. Ora, quattro anni dopo che la Disney ha acquistato la Pixar… non appena sono rientrato ho detto: “Faremo di nuovo un fim di animazione disegnato a mano”, perché amo quella forma d’arte. L’obiettivo è fare un grande film, non importa quale mezzo si usi. La questione è intrattenere il pubblico. Ho chiesto a John Musker e Ron Clemens, due cari amici (e i registi di “La sirenetta” e “Aladdin”) di tirar fuori un’idea: loro sono venuti fuori con questa fantastica nuova rilettura del principe ranocchio e l’hanno chiamata “La principessa e il ranocchio”. C’è un personaggio femminile molto forte ed è un ritorno alla fiaba, un ritorno al musical, è bellissimo… ci sono personaggi splendidi – sia umani che animali parlanti… è così… ha tutti gli elementi di un classico film della Disney. Ma è nuovo di zecca.

Visto che hai citato l’acquisto della Pixar da parte della Disney e allora: che cosa è, oggi, la Disney e che cosa è, oggi, la Pixar?

Uno studio non è un edificio… uno studio è fatto di persone. La Pixar Animation Studios ha un gruppo di cineasti e animatori che ci lavorano, così come i Disney Animation Studios. Davvero, sono gruppi diversi di artisti, ma entrambi sono studi diretti da cineasti – è quello che facciamo. Siamo i cineasti ma anche i responsabili degli studi e le idee vengono da questi artisti all’interno dello studio. C’è una differenza, ed è nella tradizione. Entrambi gli studi sono molto orgogliosi della propria tradizione. La Pixar è uno studio che abbiamo avviato dal nulla, fondato per sviluppare nuove tecnologie e che ha sempre realizzato grandi film in computer animation… la Disney è lo studio costruito da Walt Disney… non ha mai chiuso, ha sempre fatto film di animazione. È una tradizione fantastica e gli artisti che ne sono parte ne sono enormemente orgogliosi. E per giunta questa convivenza sposta in alto la barra: noi dobbiamo fare film all’altezza di quelli fatti da Walt Disney, altrimenti non ha senso che portino il nome Disney. Io la vedo così. E la “Principessa e il ranocchio” è a quel livello. È un ottimo film.

Dieci minuti con George A. Romero


Fra le interviste che ho potuto registrare durante la 66a Mostra del Cinema di Venezia, quella a George A. Romero era una di quelle che aspettavo con più impazienza. Avevo avuto modo di incontrarlo già una volta, svariati anni fa, ma il film di cui avevamo parlato, “La metà oscura”, per quanto non spregevole era ben lungi dall’avere la ricchezza tematica di qualsiasi capitolo della sua ormai quarantennale saga dei morti viventi.

Nonostante il suo tardivo ritorno al tema, con “La terra dei morti viventi”, si fosse dimostrato non proprio all’altezza delle aspettative prodotte dalla straordinaria trilogia iniziale (“La notte dei morti viventi”, “Zombi” e “Il giorno degli zombi”), il successivo “Diary of the Dead” aveva di nuovo raccolto reazioni fra l’interessato e l’entusiastico. E questo “Survival of the Dead” – più un sequel di “Diary” che un sesto capitolo della serie – suonava particolarmente intrigante anche per il fatto di essere il primo film di zombi ad essere accolto nella selezione ufficiale di Venezia.


Accolto dal pubblico festivaliero con gradimento anche se forse senza eccessivi entusiasmi, “Survival” è lungi dall’essere un film perfetto, e non si candida certo a insidiare le prime posizioni di una ideale classifica della serie… ma pullula di idee intriganti e di variazioni sul tema che promettono per i prossimi film sviluppi particolarmente suggestivi. Di alcuni dei quali Romero è riuscito a parlarmi nei pochi minuti di conversazione che i tempi scannati della Mostra ci hanno consentito, a cominciare da un taglio western addirittura sorprendente.


I generi cinematografici hanno quasi sempre notevoli potenzialità metaforiche, soprattutto quando sono codificati come il western e l’orrore. Come ti è venuta l’idea di farli scontrare e ricombinarli in “Survival of the Dead”?

Non saprei, a volte cogli le idee al volo. Facendo questo film abbiamo avuto molta libertà – ho avuto la possibilità di dire “ehi, diamogli un po’ di sapore western” e non è arrivato nessuno a dire “no!”. Sono sempre alla ricerca di qualcosa che possa dare ai miei film un taglio leggermente diverso. È vero che i generi dovrebbero essere usati come metafore ma, sfortunatamente, molto spesso non lo sono… Io cerco sempre di farlo, di trovare qualche elemento sottotraccia che mi aiuti a mettere a fuoco il tema del film. Molto frequentemente vedo che gli altri registi non lo fanno. Per quanto riguarda le possibilità metaforiche degli zombi e del western, immagino che qualche connessione ci sia, lì… e ne ho parlato con lo scenografo e il montatore… ma non è che abbiamo lavorato consapevolmente puntando a quello. Avevamo location eccezionali e, parlando con la costumista, le ho detto: “Andiamo sul western, facciamo di questi tipi dei cowboy”. Alla fine questo lavoro è anche divertirsi… e avere la possibilità di dire “facciamolo così o facciamolo cosà”. Perché questi sono film indipendenti e posso farli mantenendo il controllo. Nel bene e, a volte, nel male! (ride)


Pur con molte eccezioni, il western tende generalmente verso l’individualismo, mentre i suoi zombi hanno sempre avuto una valenza rivoluzionaria, esprimendo il cambiamento e la trasformazione. In questo film, i personaggi più legati al western si sforzano di conservare lo status quo a qualsiasi costo, nonostante uno scenario di portata apocalittica.

È un cambiamento epocale ma questi vecchi nemici non riescono a dimenticare la loro inimicizia e continuano a spararsi uno con l’altro invece che sparare a loro. Il tema di base del film è questo. Ma il collegamento che hai fatto è molto interessante. In realtà ho perso un po’ per strada l’elemento rivoluzionario degli zombi dopo i primi quattro film… in qualche modo sento di aver chiuso quel capitolo, essere tornato alla prima Notte dei morti viventi e ricominciato da capo. Questa volta mi interessa molto di più creare un insieme di regole e… spiegare il mio tipo di zombi… e anche tenere in evidenza un tema umano, allo stesso tempo. Questo per me è un film sulla guerra, su persone che nemmeno si ricordano cosa abbia iniziato la guerra ma continuano a spararsi addosso.


Proprio questa mi è parsa la metafora più interessante del film. Fin dai tempi di “Zombi”, ci viene mostrato come, al di là della ricerca del cibo, i morti viventi cerchino di continuare a fare da morti quello che erano abituati a fare da vivi. In questo film, quello che continuano a fare è spararsi addosso – lo si vede nell’ultimissima inquadratura del film. Mi è parso interessante che l’espressione della vacuità di gran parte delle attività umane, qui, si concentri soprattutto sull’inutilità del combattersi a vicenda.

È proprio il tema del film: persone che combattono fra loro fino alla morte e anche dopo. (ride) Il tema è questo. I protagonisti si recano su un’isoletta pensando che lì saranno più al sicuro, e invece sull’isola trovano questi due clan che sono costantemente… che si fanno la guerra da sempre. E non si fermano.


Poco fa hai accennato all’importanza di aver realizzato questo film in modo indipendente, un po’ come era accaduto per il primo titolo della serie. Cosa è cambiato, in quarant’anni, nel girare un film lontano dal controllo delle grandi major?

Quando negli anni Sessanta ho fatto “La notte dei morti viventi”, lavoravamo in completa indipendenza: eravamo un gruppo di giovani che volevano fare un film, che sono riusciti a tirar su qualche soldo e l’hanno fatto. Non avevamo attorno gente in cravatta, nessuna forma di responsabilità… avevamo promesso di fare un film e qualcuno ci ha dato i soldi. Adesso ovviamente è diverso, tutto è più formale… ma negli ultimi due film, “Diary of the Dead” e questo “Survival”, abbiamo avuto controllo creativo su tutto. Per cui, in quel senso l’esperienza è molto simile. È stato bellissimo poter prendere una boccata d’ossigeno… quando abbiamo fatto “La terra dei morti viventi”, dietro di noi avevamo la Universal e tutto era… grosso! E naturalmente alla fine ha incassato una cifra considerevole, ma ho sempre avuto la sensazione che i miei fan – voglio dire, i miei appassionati irriducibili – beh, dicessero: “Ah, Romero si è venduto a Hollywood… guarda, nel cast ha Dennis Hopper…” Mi trovavo ad essere criticato per qualcosa che dal mio punto di vista era ottima e anche divertente… E poi, il modo in cui hanno distribuito il film… mi è parso che avrebbero dovuto dargli una distribuzione migliore. Questi sono alcuni dei fattori che hanno avuto un peso nel farci tornare la voglia di tornare a fare i film in modo indipendente. La sceneggiatura di “Diary” ce l’avevamo fin da prima di fare “La terra”… e quando abbiamo finito “La terra” abbiamo trovato alcuni finanziatori pronti ad andare avanti e a farlo per cui siamo partiti. Quanto al procedimento… all’epoca avevamo un approccio diverso, ci limitavamo ad andare in giro a chiedere soldi. Oggi, naturalmente, tutto è più formale ma per quel che riguarda l’atto del girare un film – a parte il fatto che oggi ne so di più su come si muove l’obiettivo – tutto è abbastanza lo stesso di sempre. Certo, è molto liberatorio… è bellissimo non essere costretto a scrivere un memo ogni volta che vuoi cambiare qualcosa. (ride)

Verso la fine del film, dopo che alcuni protagonisti si sono sforzati di insegnare ai morti viventi a nutrirsi di carne non umana, gli zombi sbranano un cavallo. A parte il fatto che lo sviluppo sembra aprire la porta a un ulteriore capitolo, la novità abbatte un ulteriore muro di divisione fra morti viventi ed esseri umani normali. Nel momento in cui gli zombi, oltre a proseguire da morti le loro attività originali, mangiano carne non umana… quale è ormai la differenza?

Beh, questo è un tema su cui sto lavorando fin dai tempi di “Il giorno degli zombi” ho cominciato a lavorarci… in sostanza, ci sono più punti di contatto che differenze. Per cui quello che vorrei fare – quello che cerco di fare con questo film e nel prossimo, se un prossimo ci sarà, è di impostare un po’ di regole, alcune differenze, e rendere gli zombi più umani. L’obiettivo è di portare il pubblico a un punto in cui simpatizzano per i morti viventi – allo stesso modo in cui lo faccio io.

[Gratis su The Auteurs] “The Housemaid” (Hanyo, 1960)

Solo poche righe per segnalare che in questi giorni, sul sito “The Auteurs”, si può vedere in streaming una copia restaurata di questo film  coreano di cui non avevo mai sentito parlare e che dovrebbe divertire  diversi frequentatori di questo gruppo.

Diretto da tale Ki-young Kim e considerato in patria un autentico
classico, “Hanyo” è un melodramma/noir con venature horror che potrebbe
essere descritto come una versione serie B de “Il servo” di Losey.
Protagonista è un maestro di musica con moglie e due figli che si mette
in casa una cameriera piuttosto sexy e ben determinata a prendersi tutto
quello che le gira di prendersi. E no, non parlo di oggetti o denaro.

Bianco e nero spettacolare, qualche scena di erotismo alluso e stilizzato, atmosfera forte e suggestiva capace di far superare anche le non poche semplificazioni narrative (in particolare la facilità con cui certi personaggi si fanno manipolare anche quando sembrano avere possibilità di scelta). Ci vuole un po’ di buona volontà per superare i primi venti minuti, prima che la vicenda ingrani – ma l’attesa merita.
Attorno al minuto 71 c’è un momento abbastanza agghiacciante che ovviamente non spoilero. Anzi, non dico altro: da vedere a chi sa apprezzare noir morbosi, femmes fatales, amours fous distruttivi e disperati.

Quanto al sito che ospita lo streaming, chi non lo conosce ancora è invitato caldamente a esplorarlo. Nato con la complicità della Criterion e di Scorsese (“Hanyo” è uno dei film restaurati dalla sua fondazione, fra l’altro), The Auteurs si propone come sala cinematografica
virtuale specializzata in cinema di qualità e d’autore. I film si vedono in streaming, pagando di volta in volta una somma fra i 2 e i 5 dollari (o niente quando, come in questo caso, la proposta è free) e anche se per adesso il catalogo è relativamente succinto l’idea è finalmente di avviare il prossimo inevitabile passo del cinema in versione casalinga.
È il momento atteso dell’abbandono del concetto stesso di supporto fisico: il passaggio in massa dalle vecchie cassette al DVD non si ripeterà, credo, col tentato upgrade dal DVD al Blu-Ray. I film a casa li vedremo, ne sono convinto, con sistemi come questo – eliminando i
costi di distribuzione e finalmente, speriamo, avendo un mercato in cui, grazie alla rete, potrà diventare profittevole tenere in catalogo anche titoli oscuri che, come questo “Hanyo“,  ifficilmente avrebbero potuto vendere in DVD un numero di copie tale da giustificarne un’edizione.

Se vi registrate, fatevi trovare… ho appena cominciato a esplorare il meccanismo del sito, che ha anche una sua piccola e fin qui sommaria dimensione da Social Network.

Hanno cambiato faccia

Un articolo scritto per il dossier di Nocturno attualmente in edicola.

A trentasette anni dal suo fugace affacciarsi sullo schermo – giusto il tempo di acchiappare un Pardo d’oro al festival di Locarno, per poi svanire nell’oblio – Hanno cambiato faccia è diventato uno di quei cult nutriti da anni di irreperibilità ma che poi, una volta riemersi, si dimostrano in grado di sopravvivere alla visione. Difficile dire se il merito sia tutto del film oppure di una situazione storica come quella attuale, in cui gran parte di quelli che allora potevano sembrare paradossi narrativi sono da tempo divenuti realtà. Parafrasi stokeriana filtrata attraverso le teorie di Marcuse – ma anche diversi anni di esperienza diretta e sofferta dell’autore nell’ambiente pubblicitario del boom economico – Hanno cambiato faccia è una storia di vampiri in cui il gioco metaforico, che esplicita i modi in cui la progenie dei Dracula abbia imparato a indossare il doppio petto del potere economico e politico o il gessato dei capimafia (una categoria, quest’ultima, che, come ben sappiamo, ha saputo a sua volta cambiare faccia e uniforme, mescolandosi irreversibilmente alla prima) e abbia saputo ricavarsi nuovi spazi, consolidando il proprio potere e anzi incrementandone la portata in modo esponenziale. Così, il supervillain Giovanni Nosferatu è descritto come un potente uomo d’affari con un controllo pressoché assoluto su importanti settori dell’industria, che da tempo ha allungato i suoi tentacoli su banche e assicurazioni, che possiede giornali e televisioni e, pur non esponendosi in prima persona (e qui la realtà ha da tempo superato la fantasia) è proprietario di alcuni partiti politici.

Eppure si sbaglierebbe a ridurre Hanno cambiato faccia a un pamphlet politico (tanto più che proprio come tale il film fu accusato, dalle frange più politicizzate della critica cinematografica dell’epoca, di un punto di vista non sufficientemente rivoluzionario). Perché se non c’è dubbio che i vampiri abbiano cambiato aspetto per continuare a perpetuare il loro controllo occulto sul genere umano, si può allo stesso modo sostenere che l’elemento metaforico del film sia essenzialmente una nuova faccia che consente al genere vampirico di rinnovarsi e di riproporre in modo inedito meccanismi di base altrimenti sfruttati fino all’ultima stilla di sangue. Il fatto che gli esseri mostruosi posti a guardia di Villa Nosferatu siano un branco di automobili Cinquecento candide e letali può essere letto in modo allusivo: ma si tratta pur sempre di feroci mastini da guardia. Che il linguaggio ipnotico del vampiro si sia trasformato in una pubblicità pervasiva che viene fuori persino dalle docce non toglie che sia un metodo efficace di condizionamento della volontà. Che i servi del conte – pardon, dell’ingegnere – siano in giacca e cravatta, quando non in stola cardinalizia, non li rende meno devoti e pericolosi.

Il segreto del fascino perdurante di Hanno cambiato faccia è in gran parte questo: non è un film politico travestito da film di vampiri, ma semmai il contrario – un’opera che usa la traslazione del mito di Dracula sul piano della satira sociologica per fare, senza farsene accorgere e sfuggendo a molte delle trappole di chi si limita ad eseguire ricette consolidate, cinema di genere. E che, proprio per questo, funziona ancora oggi su entrambi i piani.

Un quarto d’ora con Jeffrey Katzenberg

Il nome completo della Dreamworks – la mini-major fondata da Spielberg oltre una decina di anni fa e, di recente, assorbita dalla Universal, è “Dreamworks SKG”. Di questo acronimo, Jeffrey Katzenberg costituisce la “K” (la “S” è il regista di Duel, ovviamente, mentre la “G” è David Geffen, magnate della discografia) e all’epoca della fondazione qualcuno aveva fatto notare che, dei tre soci fondatori, fosse l’unico che non portava in dote un capitale miliardario ma solo il talento dimostrato negli anni passati alla Disney, dove aveva avuto un ruolo determinante (sia pure, da qualcuno, ridimensionato rispetto a quel che si diceva in giro) nel rilancio del cinema d’animazione sul finire degli anni Ottanta. A Katzenberg si attribuisce in gran parte la responsabilità della doppia svolta avvenuta con La sirenetta – il film con cui la Disney uscì dalla crisi che ne attanagliava da tempo la produzione di lungometraggi animati, riaprendo il mercato, da tempo ridottosi a quello dei ragazzini, anche al pubblico degli adolescenti e degli adulti – e con la pietra miliare di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Con la “Dreamworks”, Katzenberg ha alternato alti e bassi – niente di rivoluzionario, in realtà, ma almeno due serie di successo travolgente come Shrek e Madagascar e una produzione media più che discreta. E adesso, con Mostri contro alieni, che esce nel nostro paese il 3 aprile (appena una settimana dopo l’uscita americana) si lancia con decisione nel mercato del cinema tridimensionale che, giura, costituisce il futuro del cinema stesso. Sarà vero? Di certo, a poco meno di sessant’anni dal suo primo esordio nel cinema commerciale di massa (il film era Bwana Devil, 1952), il 3D sembra aver raggiunto grazie al digitale una qualità in grado di compensare la scomodità della visione con i famigerati occhialini – i quali del resto sono ormai abbastanza sofisticati da ridurre quasi a zero il fastidio lamentato in passato da alcuni spettatori.


A livello di storia, Mostri contro alieni non dice molto di nuovo, ma il livello tecnico del 3D merita senz’altro un’occasione di vederlo – a costo di inseguire il film nelle rare sale in cui verrà proposta la versione tridimensionale, appena 60 schermi su 550 (e nessuno a Roma: che vergogna). Con Katzenberg, che rispetto agli anni Disney sostiene di aver ridotto di molto il suo impegno creativo sui film che produce, a favore di un lavoro più organizzativo e, diciamo, di facilitazione per gli autori che lavorano per lui, ho parlato soprattutto della novità tecnologica e delle nuove prospettive. Qui sotto la sbobinatura completa dell’incontro.

Di solito si dice che il cinema è un mezzo basato più sulla figura del regista mentre la televisione è più legata al produttore. A che punto si situa l’animazione? A metà fra uno e l’altro, oppure altrove?

È diversa da entrambe. L’analogia che ho sempre fatto io è che… penso che i film dal vero siano guidati per lo più da una persona. E tutti sono al servizio di quell’unica persona. L’animazione – in cui ogni singola cosa che si vede è prodotta dall’immaginazione di qualcuno è più vicina a un lavoro di squadra. È come il calcio. Ti ci vogliono gli attaccanti, i cannonieri, i difensori – tutto un gruppo di talenti molto diversi. C’è un caposquadra, ovviamente, che è il direttore dell’animazione. La cosa meravigliosa dell’animazione è che siamo quasi l’opposto del cinema dal vero. I film live action sono fatti da una serie di compromessi. Ogni ostacolo sulla strada, ogni questione pratica ti costringono a trovare un compromesso. E la differenza fra un buon film e un film brutto la fa chi sa anticipare i compromessi o aggirarli. Spielberg: lo squalo smette di funzionare e lui, sul momento, improvvisa un modo brillante [per evocarlo]. Per noi… noi compromessi non ne facciamo – quasi per niente. È un procedimento così lungo che abbiamo la possibilità di vedere quello che stiamo facendo e migliorarlo costantemente.



E allora, in che misura lei ha un controllo creativo di un film come Mostri contro Alieni? In questo caso uno dei registi è anche autore della sceneggiatura, il che non accade molto spesso.

Io credo che fra la mitologia di quello che io faccio e la realtà ci sia una bella differenza. (ride)

Beh, Disney di sè parlava come di un’ape operosa intenta a impollinare il lavoro dei suoi collaboratori – ma i suoi erano soprattutto film di Disney…

Il mio lavoro consiste nel mettere insieme un grande team creativo. E poi sostenerli, incoraggiarli e dar loro i mezzi di cui hanno bisogno, sfidarli per tutto il percorso. È un po’ quello che fa un buon editor con uno scrittore. Io non scrivo nulla ma li aiuto a realizzare la versione migliore di quello che vogliono. Ma è vero che un tempo non era così. Quando ho cominciato ero un autore, contribuivo a creare i film, partecipavo ogni giorno alla realizzazione. Ma non lo faccio più da tempo – il che probabilmente è il motivo per cui i film sono migliorati!


In oltre venti anni di carriera, quanto è cambiata l’animazione? Lei ha avuto un ruolo fondamentale in due dei film che di fatto hanno rilanciato un genere che alla fine degli anni Ottanta sembrava in crisi – La sirenetta e Chi ha incastrato Roger Rabbit

Trovo che sia più interessante il fatto che fra tanti cambiamenti sia rimasto invariata l’importanza capitale del modo di raccontare. Gli strumenti e i mezzi sono passati attraverso una quantità incredibile di cambiamenti e innovazioni – ciò che la tecnologia offre continuamente di nuovo ai narratori è stupefacente, ci sono stati cambiamenti mozzafiato. E questo è vero nell’animazione molto più che nel cinema dal vero. Mantenersi al passo con tutto questo è un grosso investimento ma offre anche opportunità immense – ogni volta che qualcuno vede uno dei nostri film c’è sempre qualcosa che spinge a dire “Wow, questa gente continua a rilanciare”… ed è così da quindici anni. E quando mi chiedono cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro io rispondo: “Di più”. Il futuro è di più.

Sempre di più, un film non è più solo un film ma il centro di una quantità di operazioni svolte su mezzi diversi – e l’animazione è da sempre stata anche un veicolo per il merchandising. Con che anticipo viene studiata la sinergia fra il film e le possibili applicazioni parallele dei personaggi?

Praticamente non accade. Le idee vengono dalla prospettiva del racconto cinematografico – alcune hanno un grosso potenziale per il merchandising, altre non ce l’hanno affatto, e questo non ha alcun peso nella nostra decisione se fare un film o non farlo. Per questo film noi abbiamo disegnato i mostri in modo che servissero al meglio le finalità narrative del film – e poi sono venute alcune persone e ci hanno detto: “Oh, potremmo farne dei giocattoli”… ma non il contrario. Non abbiamo chiamato fabbricanti di giocattoli chiedendo loro: “Descriveteci dei giocattoli e poi proveremo a farci su un film”.


Il 3D esiste, in versioni diverse, ormai da parecchio tempo – ma questa è forse la prima volta che numerosi cineasti di serie A manifestano un vero interesse in questa tecnologia. Cos’è che, in questi ultimi due o tre anni, spinge tanti registi a superare gli intoppi che fino a questo momento avevano sempre fermato la diffusione del cinema tridimensionale?

Il film lo ha visto, no? Ha mai visto qualcosa del genere? Non voglio fare una domanda retorica ma rispondere. Voi potete vedere oggi quello che noi abbiamo visto tre anni fa: qualcosa di incredibile, qualcosa che cambia tutto quel che sapevamo del cinema. E tutti i cineasti migliori – quelli che sono sempre stati dei pionieri nell’adattarsi e nello sfruttare le nuove tecnologie, Spielberg, Zemeckis, Jackson, Lucas, Cameron – sono quelli che sono sempre stati all’avanguardia della tecnologia. Tutti noi abbiamo capito nello stesso momento, tutti noi ci siamo detti: “Questo è il futuro”, e ci permette di raccontare meglio le nostre storie. Per cui siamo saltati tutti sul carro.


Quindi a fare la differenza è la maturazione della tecnologia? All’epoca del primo boom del 3D forse fu Hitchcock il solo regista di serie A a cimentarvisi, e in un film soltanto…

Non c’è dubbio che sia la tecnologia. Bob Zemeckis è la persona che si è lanciata per prima in questa avventura tre anni e mezzo fa, con Polar Express. E io posso parlare della mia esperienza. Ho visto Polar Express in 3D in una sala IMAX e ci sono rimasto secco: fu una esperienza sensazionale, eccezionale e ho capito che dovevo capire come fare qualcosa del genere nel mio settore. Sono tornato al mio studio e ho detto ai miei responsabili della tecnologia: “Questo è il futuro, dobbiamo farne parte”. E tutto si riassume in una parola sola: digitale. Digitale, digitale, digitale. Proiezione digitale, strumenti di authoring digitali, distribuzione digitale – è tutto questione di digitale. Cambia tutto. [impugna un Blackberry] Pensi a cosa fa questo oggetto. Non esisteva nemmeno, dieci anni fa – non esisteva nemmeno cinque anni fa. Quando pensa all’iimpatto che questa rivoluzione digitale ha sulla qualità delle nostre vite, beh, adesso sta accadendo anche nel cinema.

Al di là dei film realizzati direttamente per il 3D, si parla anche di tridimensionalizzare film realizzati in precedenza con metodi tradizionali – da Guerre stellari ma risalendo anche a Casablanca. La cosa interessa anche il suo settore?


So che c’è chi ci sta lavorando ma non sono aggiornato su a che punto sia la ricerca in proposito e a che livello di qualità siano arrivati. Ma non è che ci tenga a vedere realizzata questa particolare iniziativa – così come non ci tenevo a vedere cosa sarebbe successo quando hanno cominciato a colorizzare i film in bianco e nero – qualcosa che non mi è mai piaciuta, perché non penso che fosse un miglioramento. Potrebbe essere una sfida vedere se sia possibile prendere un vecchio film in 2D e rielaborarlo in postprouzione ottenendo una versione in 3D con una qualità che giustifichi lo sforzo. Posso dire che se un film non è stato prodotto in 3D, a livello di progettazione delle inquadrature… beh, è come ai tempi in cui operatori e registi giravano film in bianco e nero, li studiavano sulle sfumature del grigio fra il nero e il bianco – non c’era proprio l’intenzione del colore. Penso che il discorso valga anche in questo caso: in un film in 2D non c’era l’intenzione della profondità e di come la macchina da presa vi si muove. Per cui sono curioso di sapere come faranno. Non sono scettico, sono solo curioso. Non lo so. So che dare il colore ai film in bianco e nero non ha funzionato.

Beh, nel caso dei film in animazione digitale realizzati dalla Dreamworks – in un certo senso sono 3D, poiché di ogni oggetto o personaggio esiste un modello tridimensionale. Non sarebbe relativamente più semplice recuperare il materiale per un’eventuale versione tridimensionale? E ci sono piani in questo senso?

Potremmo farlo, ma non adesso. Oggi costa ancora troppo. Per farlo e mantenere una qualità all’altezza delle nostre esigenze dovremmo spendere una somma eccessiva – ma tecnicamente è possibile. Dovremmo tornare in dietro e ripartire dal render di un sacco di elementi, disegni, modelli di cose che funzionano perfettamente in 2D ma non altrettanto in 3D, e quindi andrebbero rifatte. Il costo di un’impresa del genere per un film di 90 minuti è ancora proibitivo.

Tre mostri su quattro sono praticamente identici a personaggi della cine-SF americana degli anni Cinquanta – il mostro della laguna nera, la donna alta 50 piedi e il blob – un altro è chiaramente ispirato allo scienziato di La mosca. Il soggetto aveva come personaggi gli originali o fin dall’inizio l’idea è stata di ispirarsi ad essi senza richiamarli direttamente?

Fin dall’inizio, l’intenzione degli autori era quella di rendere omaggio a quei personaggi senza per questo doverli usare in senso letterale.

Mostri contro alieni ha alcune scene che utilizzano il 3D in modo pretestuoso come accadeva una volta – addirittura la scena della racchetta con la palla elastica è una citazione dell’House of Wax di André de Toth – ma nel complesso sembra evitare la tentazione di usare il 3D come un gimmick. Come avete lavorato per integrare la tecnologia nella storia?

Ogni singola inquadratura è stata pensata in termini di 3D. Credo sia per questo che si nota una qualità e un’esperienza immersiva unica che il 3D non aveva mai dato prima. Sulla sceneggiatura si è lavorato oltre un anno e mezzo e fin dai primi storyboard ogni singolo artista che ha lavorato al film ha pensato tutto in termini tridimensionali.

“Eudeamon” (2009) di Erica Moak (Zero91 Editore)

“Eudeamon” (2009) di Erica Moak (Zero91 Editore)

È da oggi in libreria “Eudeamon”, un libro della cui pubblicazione sono in parte corresponsabile – al punto che l’editore mi ha chiesto qualche tempo fa una sorta di postfazione. Eccola qui, col permesso di Zero91, che ovviamente ringrazio.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=INBmVxAsdFE&hl=en&fs=1]

“Tutti qui vanno da Rick” diceva il capitano Renault al maggiore Strasser in una delle scene di apertura di Casablanca, e aveva ragione: fra contrabbandieri e spie, borsaioli, nazisti, spacciatori di lettere di transito, partigiani, nobili decaduti, al Rick’s Café Americain si poteva incontrare un campionario umano estremamente variegato che rappresentava trasversalmente la maggior parte delle nazioni del mondo sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale. E sebbene il film sia del 1943, la tradizione continua: il libro che avete appena finito di leggere non esisterebbe, probabilmente, se non fosse per un incontro fortuito, avvenuto al Casablanca Café – un night club ispirato al film che, per un po’ di tempo, ha costituito un ritrovo ideale per i cinefili del metaverso.

Coniato dal romanziere Neal Stephenson nel suo fondamentale Snow Crash (1992), il termine metaverso indica un ambiente virtuale tridimensionale nel quale gli esseri umani possono entrare in qualità di avatar (rappresentazioni grafiche di se stessi) interagendo fra di loro ma anche con semplici software più o meno evoluti. È quel mondo che qualcuno ancora chiama realtà virtuale, che sempre più si delinea come uno degli sviluppi più interessanti dell’interazione a distanza, e di cui Second Life è, a tutt’oggi, la modalità che fin qui ha suscitato più eco attraverso i media – prima grazie un hype forse esagerato, in seguito a causa del prevedibile contraccolpo. Il destino di qualsiasi moda, si sa, è sempre il passare di moda e questo è accaduto anche per il metaverso realizzato dalla Linden Lab, che ha rallentato la sua crescita esponenziale ma che tuttavia continua a prosperare e, ormai da anni, costituisce fin qui il mondo virtuale più ricco, completo, variegato e stabile che sia stato realizzato. Il Casablanca Café, come molte imprese del mondo reale, ha avuto di recente qualche vicissitudine legata alla recessione: ma nel corso del 2008 mi è capitato di passarci volentieri diverse serate, soprattutto per guadagnare qualche dollaro virtuale partecipando ai quiz sul cinema organizzati dal proprietario, Daedalus Lemuria. Ed è stato a una di queste serate che mi è capitato di incontrare Winthorpe Foghorn Zinnemann.

Lì per lì niente distingueva Win da tanti altri avatar che avevo incrociato durante le mie non frequentissime esplorazioni su Second Life (nel metaverso quasi tutti sono giovani e attraenti) ma mi sono reso conto molto presto che di cinema ne sapeva abbastanza da rivelarsi una concorrente temibile: quando c’era lei, i miei guadagni si dimezzavano. Forse conosceva meno titoli di me, ma digitava molto più in fretta e quando entrambi conoscevamo la risposta finiva quasi sempre per battermi di qualche secondo. Quando ho scoperto che, nonostante il nome, era italiana, abbiamo cominciato a chiacchierare del più e del meno. È stato proprio ai tavoli del Casablanca, dopo una di quelle gare, che Win ha cominciato a parlarmi di Eudeamon.

La premessa non era delle più convincenti. Aveva sentito parlare del libro, mi ha detto, sul blog di Marine Kelley – un nome che a me non diceva niente ma che ho scoperto essere una specie di mito per una certa categoria di frequentatori di Second Life. Un paio di anni fa, Marine Kelley ha cominciato a produrre e mettere in vendita nel metaverso una linea di oggetti battezzati Real Restraints e la cui funzionalità è particolarissima: si tratta di manette, corde, cinture e bavagli destinati a simulare, all’interno di Second Life, la sensazione di essere prigionieri di qualcuno. L’avatar che li acquista e li indossa diventa, da quel momento, vulnerabile alle attività di altri avatar: i quali possono rubargli le chiavi e ammanettarlo, o legarlo o comunque renderlo prigioniero senza che la vittima possa più liberarsi da sola. Questi oggetti funzionano in modo particolarmente efficace con una versione appositamente modificata, dalla stessa Kelley, del client di Second Life (ossia il programma lanciando il quale si può entrare nel metaverso) ed esiste una sterminata comunità di persone che si fanno un punto d’onore di utilizzare soltanto quello. Vantandosi del fatto che, se vengono fatti prigionieri da qualcuno in quelle condizioni, non hanno modo di liberarsi da soli fino a quando il loro catturatore non si degna di rendere loro la libertà.

Win, scoprivo in quel momento, faceva parte di questi appassionati di bondage virtuale. Non solo viveva intensamente la sua seconda vita, andando in cerca di guai ed avventure in zone piene di gabbie, catene e trappole, ma la raccontava nei dettagli in un blog illustrato da fotografie che lei stessa scattava, come diceva lei, in-world. Un blog, peraltro, piuttosto seguito da diversi lettori affezionati che, a quanto avrei avuto modo di vedere, spesso frequentavano Win nel metaverso e a volte entravano loro stessi a fare parte del gioco – e dico gioco in mancanza di un’espressione migliore, perché ho avuto la sensazione che molti (e Win stessa) a volte prendessero la cosa molto sul serio. Andai a leggere la pagina del blog, in cui Win si entusiasmava su Eudeamon paragonandolo a grandi autori di SF come Philip K. Dick e Robert Sheckley, poi andai a leggere quello della Kelley trovando anche lì lodi sperticate. E scoprendo, come se non bastasse, che la creatrice di manette aveva messo a punto, all’interno di Second Life, un suo personale Progetto Banishment che consentiva a chiunque lo desiderasse di provare direttamente (o meglio, per interposto avatar) un’esperienza analoga a quella della protagonista, Katrina Nichols. Win stessa, scoprii, era stata in passato un Bane e, da qualche tempo, era entrata a lavorare alla Kelley Technologies come Bane Operator.

C’era un po’ di fanatismo, in tutto questo? Come era possibile che, se davvero il romanzo era così bello da scatenare fenomeni di culto, non avesse ancora trovato un editore, e fosse liberamente scaricabile dal sito dell’autrice? Eppure, tutto questo entusiasmo mi sembrava rendere necessaria quantomeno una verifica: sono andato a visitare il sito di Erika (un sito che è di per sè un mondo, a tratti inquietante, tutto da esplorare: http://www.evil-dolly.com/), mi sono tirato giù il file Word e ho cominciato a leggere. Accorgendomi ben presto che quelle pagine, da cui mi aspettavo, nel migliore dei casi, una forma di fan fiction più o meno accettabile erano, invece, ben altro: un racconto articolato ed avvincente, tanto per cominciare, ma soprattutto capace di passare, dalla fantasia feticista che indubbiamente ne aveva ispirato l’idea centrale, al livello superiore di un testo ricco di significati metaforici… un libro che parla di solitudine e di amore – anzi, di Amore con la A, e magari anche tutte le altre lettere, maiuscole… un amore totalizzante, fatto di accettazione totale dell’altro e che, proprio per questo, forse solo la religione o la follia, oppure un narcisismo portato alla patologia, possono promettere in questo mondo. Un amore che viene poi declinato dall’autrice in modi tutt’altro che banali che portano, per citare Win stessa, a “sviluppi commoventi, pieni di gioia, addirittura esaltanti… ma anche di elaborazione del lutto, desiderio di vendetta, e in ultima analisi solidarietà, amore per il prossimo, desiderio di condividere i doni più straordinari della vita – almeno con chi ha il coraggio di affrontare a viso aperto i propri desideri più segreti”.

Ma c’era dell’altro: anche se non è ambientato in un metaverso, Eudeamon ha a che fare con i mondi virtuali, prodotti oggi sempre meno dalle droghe e sempre più dalla tecnologia – mondi che, insieme alle nuove forme di comunicazione, stanno modificando profondamente e molto rapidamente il modo stesso in cui percepiamo e decodifichiamo la realtà che ci circonda. Cogliendo perfettamente quel che significa, in questa era di comunicazione globalizzata, istantanea e onnipresente, la negazione della comunicazione stessa.

Arrivato all’ultima pagina sono stato d’accordo con Win e con la Kelley: Eudeamon era rimasto per troppo tempo un gioiello riservato al culto di pochi appassionati, e bisognava assolutamente trovargli un editore. Win aveva già ottenuto un assenso di massima da Erika Moak, ma aveva preso contatto con un paio di piccole case editrici che non avevano mostrato particolare interesse – forse anche a causa della difficoltà per un editore di prendere sul serio proposte provenienti da un avatar di Second Life che rifiuta categoricamente di rivelare il benché minimo dettaglio della sua vita reale. Il mio unico, piccolo merito, in tutta questa storia, è stato di fare da tramite fra la virtuale Win e i due, concretissimi, fondatori della Zero91 (che conoscevo in qualità di editori dell’ultimo romanzo di mio padre, L’invasione degli Ultragay) e suggerire loro che leggessero, valutassero e, se del caso, pubblicassero. Il risultato di queste trattative è nelle vostre mani: questa traduzione italiana è a tutt’oggi la sola edizione cartacea di Eudeamon sia di qua che di là dal metaverso. E la dobbiamo esclusivamente al quiz settimanale del Casablanca Café, e al mio incontro con quella fascinosa fanciulla di pixel che mi guastava la piazza.

Quella fanciulla, peraltro, in seguito si è dimostrata molto meno innocua di quel che sembrava quando, en passant, mi ha informato dell’iniziativa cui accennavo sopra – quella del banishment virtuale organizzato da Marine Kelley. Se, come era evidente, il libro mi era piaciuto tanto, perché non avrei dovuto provare a vivere su Second Life un’esperienza analoga? Dopo tutto, Win ora lavorava per la Kelley Technologies come Bane Operator, e mi avrebbe riservato un trattamento di favore, e, anzi, nel mio caso, era disposta ad anticipare lei la cauzione che avrei dovuto versare, e mi avrebbe prestato lei la sua skin, ed era un’occasione unica, e poi avrei potuto raccontarlo in giro, e dopo tutto forse avrei capito quanto l’esperienza poteva essere intensa. E, e, e… alla fine, devo ammetterlo, mi ha convinto. Ho scaricato il client modificato (requisito essenziale e irrinunciabile), mi sono collegato col mio avatar al metaverso e mi sono presentato a Zhora, sede della Kelley Tech, dove Win mi aveva dato appuntamento. Per diventare un Bane.

Tralascio i dettagli della “procedura” a cui io, o meglio il mio sfortunato avatar, è stato sottoposto: chi ha letto il romanzo sappia che l’esperienza è stata molto simile a quella della Nichols, e basterà riferire che la Win cordiale e affabile che avevo conosciuto al Casablanca si è dissolta completamente, trasformandosi in una professionista del banishment gelida, inflessibile e spietata. E trasformando me in un ennesimo Bane senza faccia, destinato a vagare per Second Life senza poter comunicare con nessuno. La minima infrazione a una lista impressionante di regole viene punita con estensioni di pena di ore e ore. Io avevo optato per una sentenza, che mi sembrava interlocutoria, di 24 ore/gioco, ma le violazioni che ho quasi subito cominciato ad accumulare mi hanno rapidamente portato sopra il centinaio di ore da scontare. A questo punto, dubito fortemente che gli impegni della mia vita reale mi permetteranno di collegarmi a Second Life abbastanza a lungo da permettermi mai di uscire dal mio banishment virtuale: le rare volte che riesco ancora a connettermi sono ridotto a gironzolare senza meta, osservando gli altri avatar da lontano, impossibilitato a comunicare con le non molte persone che mi capitava di frequentare. E qualche volta sento, all’interno del mio casco, la voce beffarda di Win, il mio implacabile Operatore, che occasionalmente mi consente di comunicare con lei attraverso il Vox, lo strumento che rende, temporaneamente, la voce ai Bane.

Potrei ricollegarmi con il client normale, e togliermi di dosso l’infernale Custodian, ma sarebbe come barare – e su Second Life, Win non fa che ripetermelo con un sorrisetto amabile e a suo modo anche affettuoso, barare è considerato un’offesa capitale. Stando così le cose, comincio francamente a perdere le speranze di vedere il mio avatar tornare, un giorno, alla sua (seconda) vita normale. Non ho ancora capito se Win ha deciso di aspettare che io trovi il mio Eudeamon personale o se, semplicemente, si diverte a tenermi prigioniero. Di certo, le restrizioni imposte dal Banesuit mi impediscono di indagare circa la fondatezza di un sospetto atroce che, di recente, si è affacciato alla mia mente – che Win abbia approfittato del Banishment per togliersi di torno quello che, al quiz cinematografico del Casablanca Café era per lei un concorrente un po’ troppo fastidioso.

L’unica persona a cui posso chiederlo è Win, ma nei rari casi in cui mi restituisce la parola è sempre lei a condurre la conversazione. Le rare volte che provo a farle la domanda, sorride enigmaticamente. E disabilita il Vox.
Aiuto.

Doppio DVD: “La tigre di Eschnapur” e “Il sepolcro indiano” di Fritz Lang

È uscito in videoteca il cofanetto che riunisce i due film del dittico indiano diretto da Fritz Lang verso la fine della sua carriera. Per gentile concessione dell’editore riporto qui sotto il testo che ho scritto per il fascicoletto allegato.

Il percorso che un regista deve compiere per trasformare un progetto in un film vero è proprio è quasi sempre un campo minato irto di difficoltà che può richiedere una dedizione e una costanza ben al di là di quel che si immagina. Ma anche con questa premessa, il fatto che Fritz Lang ci abbia messo 39 anni a portare sullo schermo La tigre di Eschnapur costituisce, se non un record assoluto, quantomeno un caso limite. Quella che avrebbe dovuto essere una delle primissime opere del regista viennese ne è diventata praticamente il canto del cigno, di modo che l’inizio e la fine del progetto appaiono delimitano l’alfa e l’omega di una brillante carriera – determinata in gran parte, come si vedrà, da una combinazione di audacia e di coincidenze più o meno fortunate.

Nato a Vienna alla fine del 1890, dall’architetto Anton Lang e da Paula Schlesinger, il giovane Lang accetta inizialmente di frequentare studiare ingegneria ma in realtà è ben deciso a diventare pittore. Mentre comincia a darsi da fare con i pennelli, ispirandosi soprattutto a Egon Schiele e a Gustav Klimt, Lang si scopre anche un appassionato donnaiolo: “Ero precoce e ho cominciato molto presto”, ricordava in un abbozzo di autobiografia scritta per Lotte Eisner: “Le donne viennesi erano le più belle e le più generose del mondo. Era costume comune incontrarsi segretamente in qualche caffè di Vienna durante l’intervallo di uno spettacolo teatrale o, per caso, dopo le 11, in un cabaret o in un locale notturno”.

Forse anche per indulgere più facilmente a questi piaceri, Lang trova lavoro come maestro di cerimonie in un paio di cabaret (il Femina e lo Holle, ossia “inferno”), anche se è costretto a smettere immediatamente non appena il padre ne viene informato. In seguito alla reazione paterna, il giovane scappa senz’altro di casa e si reca per prima cosa in Belgio per poi mettersi a viaggiare in giro per il mondo: “nel Nordafrica, in Turchia, Asia Minore e perfino a Bali. Alla fine capitai a Parigi. Mi guadagnavo da vivere vendendo cartoline dipinte a mano, i miei disegni e, ogni tanto, qualche vignetta per i quotidiani”. Nella capitale francese, Lang frequenta di giorno la scuola di pittura di Maurice Denis, mentre la sera si reca all’Academie Julien per studiare il disegno del nudo. Ma è in quel periodo che comincia a frequentare regolarmente le sale cinematografiche, con un interesse crescente per le potenzialità dell’immagine in movimento.

“Vissi a Parigi fino all’Agosto 1914. Ricordo che in quei giorni nessuno credeva davvero a una guerra fra Francia e Germania. Ero seduto in un piccolo caffè di Montmartre con alcuni amici quando qualcuno entrò di corsa: ‘Jaures assassiné par un camelot du roi’. Era l’inizio della fine”. Il 5 agosto, Lang torna di corsa a Vienna e apre un suo studio, ma ben presto viene arruolato per un anno nell’esercito. Nel corso della guerra viene promosso ufficiale, ferito più volte e riceve anche qualche medaglia. Durante le sue degenza negli ospedali militari comincia a scrivere per il cinema: “Un film di lupi mannari che non riuscii a vendere e poi due sceneggiature, Die Hochzeit im Excentricclub e Hilde Warren und der Tod, che vendetti entrambe a Joe May, all’epoca un noto produttore e regista berlinese”. Quando il film tratto dalla prima viene finalmente distribuito, Lang resta molto deluso dal fatto di non essere citato fra gli autori – e giudica per giunta che la realizzazione della storia da lui concepita sia molto lontana da quella che aveva immaginato: “Penso di aver deciso allora, nel subconscio, che sarei diventato un regista cinematografico”.

Ma ci sono ancora alcuni passi da compiere. Nel 1918, dopo una ferita subita sul fronte italiano, Lang viene dichiarato ormai inabile a ulteriori mansioni in prima linea e congedato. Dopo due mesi di ospedale, gli viene concesso di passare le giornate in giro per Vienna, purché rientri entro le otto di sera. Un pomeriggio, in un caffè, qualcuno gli si avvicina per offrirgli la parte di un tenente in uno spettacolo teatrale intitolato Der Hias. Lang accetta (“pretesi 1000 corone invece delle 800 che mi offrivano”) e la scelta si rivela particolarmente fortunata: a una delle rappresentazioni viene notato dal produttore Erich Pommer, che gli offre un contratto con la Decla (società di produzione da lui stesso fondata appena due anni prima) e lo invita a Berlino.

Per Lang, l’esperienza è entusiasmante nonostante i guadagni siano molto scarsi. Per Pommer lavora prima come lettore di sceneggiature e poi come sceneggiatore in proprio, ma per arrotondare le entrate partecipa come attore a tre film da lui stesso scritti (i suoi ruoli sono, rispettivamente, “un corriere tedesco, un vecchio prete e la Morte”) fino al giorno in cui ottiene l’incarico di girare il suo primo film come regista, Halbblut, un dramma amoroso girato in appena cinque giorni, immediatamente seguito dall’analogo Der Herr der Liebe, dalla prima parte del thriller Die Spinnen (l’episodio si intitolava Der Goldene See) e infine da Hara Kiri, una riduzione della classica Madama Butterfly.

È a questo punto che Pommer propone al giovane regista un soggetto intitolato Das Kabinet des Doktor Caligari. Lang lo legge con attenzione e poi avverte il produttore: “Erich, il pubblico non capirà nulla di un film espressionista di questo tipo, con prospettive distorte eccetera, a meno che tu non metta una scena all’inizio del film con due persone che parlano in modo normale in un’ambientazione realistica così che il pubblico sia consapevole fin dall’inizio che la storia è raccontata da un pazzo”. Anche se l’autore della sceneggiatura originale è di parere assolutamente contrario, il produttore accetta l’idea con entusiasmo, solo che Lang rimane vittima del suo stesso successo: “I proprietari delle sale avevano fatto tanti soldi con la prima puntata di Die Spinnen che ne volevano immediatamente una seconda. Così Pommer fu costretto a togliermi Caligari perché potessi terminare la serie”. È così che il titolo capostipite dell’Espressionismo tedesco viene diretto da Robert Wiene, mentre Lang si dedica a Das Brillanten Schiff – e nonostante la fortuna commerciale di questa seconda e ultima parte della serie Die Spinnen, non c’è da stupirsi se allo scadere del suo contratto con Pommer il regista decide di non rinnovarlo. Accetta, invece, un’offerta da Joe May – con il quale collabora già da qualche tempo una popolare scrittrice di nome Thea Von Harbou.

Nel 1918, l’anno in cui Lang veniva congedato dall’esercito, la Von Harbou aveva pubblicato con l’editore Ullstein Verlag un romanzo intitolato Das indische Grabmal che si era rivelato rapidamente un notevole successo – e May incarica Lang di collaborare con lei per tirarne fuori una sceneggiatura. Un lavoro galeotto: l’incontro della scrittrice con il trentenne regista costituisce un colpo di fulmine i cui effetti si estrinsecano simultaneamente sul piano artistico e personale. Sposata dal 1914 con l’attore Rudolf Klein-Rogge, la Von Harbou se ne separerà molto presto e, dopo aver divorziato nel 1921, diventerà un anno dopo la signora Lang. Non prima, però, che Joe May abbia, per la seconda volta, inflitto al regista una nuova e ancor più cocente delusione.

“Io e la signora Von Harbou lavorammo alla sceneggiatura e il tema si ampliò fino a diventare un film in due parti (…). Quando terminammo la sceneggiatura – non lo dimenticherò mai – io e la signora Von Harbou ci recammo da Joe May, che iniziò a leggerla. La diede a sua moglie, Mia May, e a sua figlia; la lessero e la rilessero tutti quanti. E lui disse: “È fantastica, magnifica – magnifica”. Mi chiamava Fritzska – perché, non lo so. Così io e la signora Von Harbou tornammo a casa molto contenti. Tre giorni più tardi lei venne da me e mi disse: “Fritz, ho delle notizie molto brutte per te”. Io chiesi quali fossero e lei rispose: “Per venire subito al sodo: non puoi girare questo film”. “Perché no?”, dissi io. E lei: “Joe May mi ha detto che la banca non gli darebbe i soldi se lo dirigessi tu, perché sei un regista troppo giovane per un film così costoso”. Era una bugia. Perché in realtà il signor Joe May era convinto che questo film sarebbe stato un grande successo e voleva dirigerlo lui stesso. Non potevo fare niente – il film era finito per me”. Com’è facile immaginare, il sodalizio di Lang con Joe May si esaurisce molto presto e il regista torna a lavorare per Erich Pommer dirigendo Destino (Der Müde Tod, 1921) su sceneggiatura della Von Harbou, un film che diventerà il suo primo grande successo personale. “Ma non subito”, ricordava Lang: “Quando fu proiettato la prima volta a Berlino i critici, per ragioni che non sono mai riuscito a capire, cercarono di uccidere il film. Uno di loro disse che il film rendeva lo spettatore stanco di guardare”, un banale riferimento al titolo del film, traducibile letteralmente come La morte stanca. A salvare la carriera del regista, con decenni di anticipo sulla riscoperta del periodo americano di Lang da parte dei Cahiers du Cinéma, è la critica francese: “Dopo due settimane fu ritirato dalle sale di Berlino: ma uscì poi a Parigi e altrove ricevendo le recensioni più incredibili. Uno dei critici francesi scrisse: “Questa è la Germania che un tempo amavamo” – tutto questo subito dopo la Prima Guerra Mondiale, ricordate. Poi il film fu ridistribuito in Germania e divenne un successo mondiale”.

Nella versione originale diretta da Joe May, il Maharaja di Eschnapur è interpretato da Conrad Veidt, uno dei divi più celebri del cinema tedesco di allora (oggi ricordato soprattutto per aver interpretato in Casablanca il nazista maggiore Strasser – destino ironico per un attore che si era trasferito negli Stati Uniti proprio in segno di rifiuto per l’avvento di Adolf Hitler). Un architetto europeo viene da lui convocato in India per fabbricare un tempio più grande del Taj Mahal – ma ben presto scopre che questo ambizioso monumento dovrà servire a seppellire viva l’amante infedele del committente. Girato interamente in Germania, il film viene distribuito in due parti per via della lunghezza (i titoli degli episodi sono Die Sendung des Yoghi, “la missione dello yogi”, e Das Indische Grabmal) e sembra ispirarsi a modelli decisamente alti, come spiegano Meenakshi Shedde e Vinzenz Hediger nel saggio Come On, Baby, Be My Tiger – Inventing India on the German Screen in Der Tiger von Eschnapur and Das indische Grabmal. Il film, a loro dire, “fa pensare in modo inquietante a un’opera di Richard Wagner in termini di ritmo e dell’accento che pone sui tormenti emotivi dei personaggi piuttosto che sull’azione fisica – per non dire della fidanzata dell’architetto che ha l’aspetto di un’eroina wagneriana, una Valchiria bionda e tarchiata”.

Non che si tratti di un salto interpretativo rivoluzionario, soprattutto se si pensa che nemmeno tre anni più tardi il duo Lang/Von Harbou dichiara, in buona sostanza, i propri modelli realizzando il dittico I Nibelunghi (Die Nibelungen, 1924; i due episodi si intitolano Siegfried e Kriemhilds Rache, “Sigfrido” e “La vendetta di Crimilde”). Ma quello wagneriano è un modello che si perde in gran parte in un primo remake del Sepolcro indiano realizzato già nel 1938 da Richard Eichberg e che, a differenza della versione precedente, si gira in India a Udaipur, nel Rajasthan. La trama si complica notevolmente con maggior attenzione alle scene spettacolari, l’aggiunta di personaggi russi, di una scimmia bevitrice di whisky e qualche notevole modifica negli snodi narrativi. Se nel primo film l’architetto veniva convocato in India da uno yogi appositamente resuscitato dal maharajah (da cui il titolo del primo dei due episodi), qui lo incontriamo più prosaicamente sull’aereo che lo sta portando a destinazione ed è chiaro che il messaggio gli è stato recapitato coi mezzi tradizionali dell’era delle telecomunicazioni. Il compito per cui il maharajah l’ha convocato, fra l’altro, non è più l’erezione di un tempio all’amore perduto bensì di una città modello. Quanto al finale, l’amante condannata a una sepoltura precoce non finisce suicida come nella versione precedente, ma riesce a scappare con l’amante.

La scelta di girare on location non sembra aver entusiasmato i membri del cast. In interviste dell’epoca si leggono dichiarazioni di questo tenore: “È stato terribilmente difficile lavorare con la gente di lì (…) Lavorano come lumache e alcuni degli indigeni erano così stupidi che avremmo fatto prima ad addestrare un cane”. Per giunta, qualche membro della troupe lamenta il fatto che sia stato impossibile girare scene con donne che facevano il bagno perché non permettevano che il regista le toccasse. Sono commenti in cui si sente fin troppo l’elemento razzista dell’ideologia che ha ormai lanciato la Germania verso una futura catastrofe e scatenano, prevedibilmente, una polemica che prende le mosse da un articolo su Film India di Baburao Patel: “Nella totale arroganza di un orgoglio e potere nazionali da poco conquistati, il tedesco moderno è divenuto cieco alla sottigliezza dei sentimenti che distingue i migliori fra gli esseri umani… La tigre di Eschnapur è in poche parole un film detestabile che in questo momento fa il lavoro sporco nelle nazioni Europee diffamando gli Indiani e ridicolizzandoli di fronte al mondo… Nello spirito e nella essenza è anti-Indiano”.


Quasi inutile annotare che, per quanto è dato sapere, il film di Eichberg non fu mai distribuito sul mercato indiano. Quel che invece va sottolineato è che quando il film esce in Germania la vita ha portato Lang molto lontano. È lo stesso regista a raccontare, nelle sue note autobiografiche, l’episodio che gli fece decidere di lasciare il paese, e che si verifica qualche tempo dopo la messa al bando del suo Il testamento del Dottor Mabuse (Das Testament des Dr, Mabuse, 1932), nel quale il regista e la sua sceneggiatrice avevano messo in bocca proclami nazisti al supercriminale eponimo: “Fui convocato da Goebbels non, come temevo, per essere chiamato a rispondere del film ma, con mia sorpresa, per sentire il Ministro della Propaganda del Reich che mi chiedeva di accettare la posizione di direttore supremo dell’industria cinematografica tedesca”. Lang, che per parte di madre sa di non appartenere alla vagheggiata pura razza ariana, fa notare a Goebbels di essere in parte ebreo, ma la risposta lo raggela: “Herr Lang: ma siamo noi che decidiamo chi è ebreo”. La reazione del regista, non appena congedato dal suo potente ospite, fu quasi istantanea: “Lasciai la Germania quella sera stessa. Il colloquio con Goebbels era durato da mezzogiorno alle 14.30 e a quell’ora le banche avevano chiuso e io non potevo prelevare denaro. Avevo solo quanto bastava a comprare un biglietto per Parigi e arrivai alla Gare du Nord praticamente senza un soldo”.

A Parigi, Lang ritrova Erich Pommer e, ottenuto un permesso di lavoro, realizza con lui Liliom per la Fox prima di accettare un contratto con la MGM e trasferirsi negli Stati Uniti. Ma a differenza del marito, Thea Von Harbou ha deciso invece di restare in Germania abbracciando la causa del nazionalsocialismo – il che non può che porre la parola fine sia al matrimonio che alla collaborazione artistica. Lo spazio non consente qui di dilungarsi sullo sviluppo parallelo delle rispettive carriere. In una sorta di avanti veloce sulla Von Harbou, varrà la pena di annotare che una volta separata dal marito la scrittrice passerà in prima persona alla regia (trovandosi fra l’altro a dirigere il suo primo marito, Rudolf Klein-Rogge, peraltro già protagonista di alcuni film dello stesso Lang e volto, fra l’altro, del suo già citato dottor Mabuse). La partecipazione in prima persona alla produzione di diversi film propagandistici, non contribuisce a facilitarle la carriera nel dopoguerra, pur non portandola a una vera e propria emarginazione professionale. Per tragica fatalità, la causa indiretta della scomparsa prematura della sceneggiatrice sarà quel primo film di successo realizzato con Lang dopo il tradimento di Joe May: nel 1954, partecipando a una proiezione in suo onore di Destino, la Von Harbou cade accidentalmente e subisce un trauma che la porta in poco tempo alla morte.

Quanto a Lang, anche se nessuno dei suoi film americani avrà la portata di titoli come Metropolis (1926) o M, il mostro di Düsseldorf (M, 1931), riesce nonostante le immaginabili avversità ad affermarsi anche a Hollywood come regista di prodotti di serie A, procurandosi rapidamente una fama di perfezionista incontentabile e, per qualcuno, addirittura temibile. In vent’anni, il regista realizza importanti titoli di impegno sociale come Furia (Fury, 1936), noir memorabili quali La donna del ritratto (The Woman in the Window, 1944), western, film polizieschi e spy-stories. Per due decenni, Lang mantiene all’interno dell’industria americana una voce quasi sempre personale, riuscendo spesso ad aggirare o addirittura ribaltare le convenzioni e gli stereotipi dei generi nei quali si cimenta. Fino a quando, dopo un paio di lavorazioni rese difficoltose dai suoi rapporti con la RKO, dichiara di averne avuto abbastanza e di essere intenzionato a esplorare nuove strade.

È una di queste a portarlo di nuovo verso l’Oriente. Ricorda Lotte Eisner che “nel 1956, il governo indiano invitò Lang in India per fare un film. Il progetto era centrato sul maharajah del 17° secolo che aveva costruito il Taj Mahal in memoria della sua amata. Lang abbandonò il progetto quando divenne chiaro che l’ideale indiano di bellezza era completamente diverso da quello europeo, per cui il casting diventava un grosso problema. Questa permanenza di diverse settimane, tuttavia, fu di grande aiuto in seguito per i suoi film tedeschi ambientati in India”. L’occasione non si fa attendere a lungo: il produttore tedesco Arthur Brauner, direttore della CCC Films, ha acquisito i diritti sulla sceneggiatura originale di Das indische Grabmal e propone al regista totale libertà creativa, un budget più che decoroso e la possibilità di effettuare le riprese on location. Lang accetta con un certo entusiasmo, forse attratto dall’idea di prendersi finalmente una rivincita sullo scippo di Joe May, forse per tornare, a fine carriera, a una storia che lo riporta agli anni della sua invincibile giovinezza.

Così come l’originale diretto da May, anche questa terza versione della storia arriva sugli schermi divisa in due parti – ed è percepibile il desiderio di Lang di rifarsi all’avventura quasi ingenua di tanti anni prima, al concetto di serial e al gusto per il rinvio della conclusione narrativa alla prossima puntata, il tutto però beneficiando di mezzi ben più sostanziosi, del colore, delle ambientazioni in gran parte reali e di quattro decenni di esperienza. Un’operazione, a ben pensarci, che anticipa di oltre vent’anni film come I predatori dell’Arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981) ma che la maggior parte dei critici non sono affatto disposti ad approvare. Nel complesso, il film viene giudicato dalla stampa tedesca dell’epoca anacronistico e privo di interesse – ignorando completamente il fatto che il rinvio nostalgico al passato ne costituisce l’essenza principale. Ma al di là della nostalgia per i sentimenti forse ingenui del cinema di prima della guerra, del gusto dell’evasione fine a se stessa, del fascino sempre verde dell’esotismo, i veri conoscitori del cinema di Lang seppero apprezzare nel film il gusto per la scenografia, il rinvio a temi già comparsi nel passato (la scena nella caverna dei lebbrosi, creature che ricordano da vicino gli operai ridotti ad automi di Metropolis e, curiosamente, anticipano di un decennio anche i morti viventi di George A. Romero) che, per dirla con Robin Wood, sono “eseguiti con una purezza di tratto e una economia di mezzi imparata a Hollywood”.

Alla reazione negativa dei recensori di allora, Lang in qualche modo doveva essere preparato se, in un’intervista rilasciata nel 1959 a Jean Domarchi e Jacques Rivette per i Cahiers du Cinéma (la rivista su cui per la prima volta il cinema americano di Lang aveva ricevuto un po’ di seria attenzione critica) dichiarava: “I critici ormai sono troppo sofisticati e preferiscono ignorare il fatto che amare veramente una donna e lottare per lei è qualcosa di importante e necessario. Mentre preparavo La tigre di Eschnapur, ho avuto una discussione col mio dialoghista perché volevo far dire al Maharaja: “Se mi date la vostra parola d’onore, vi lascerò libero nel mio palazzo”. E lui mi ha risposto: “Stammi a sentire, il pubblico si metterà a ridere. Al giorno d’oggi, la parola di un uomo non vale niente”. È triste, bisogna ammetterlo”. Ma se questa consapevolezza non poteva certo bastare per guadagnare al film l’approvazione della critica, almeno il pubblico reagì favorevolmente, tanto che Brauner convinse Lang a un altro revival, producendogli Il diabolico dottor Mabuse (Die tausend Augen des Dr. Mabuse, 1960). Per Lang, questi ritorni al passato avevano, fra l’altro, motivazioni di strategia professionale che sulla carta appaiono validissime ma che, purtroppo, si sarebbero rivelate vane: “Non ho fatto quei film perché fossero importanti ma perché speravo che se avessi realizzato per qualcuno un grosso successo commerciale avrei avuto di nuovo la possibilità – come l’avevo avuta con M – di lavorare senza restrizioni. Fu un mio errore”. In effetti, l’ultimo ritorno del dottor Mabuse segnò anche la conclusione definitiva della carriera di Lang come regista.


Intorno al 1960, ricorda Lotte Eisner, “a Lang fu offerta l’occasione di girare altri due film ambientati in India. Tuttavia i progetti furono infine abbandonati quando il produttore italiano insistette su certe modifiche alla sceneggiatura nonostante il contratto con Lang garantisse al regista completo controllo artistico”*. Ma evidentemente il destino aveva deciso altrimenti e Lang non sarebbe più tornato dietro alla macchina da presa. Sarebbe invece apparso, nella parte di se stesso, nel film Il disprezzo (Le mépris, 1963) di Jean-Luc Godard, impegnato nelle riprese di una bizzarra versione dell’Odissea.

Al di fuori della Germania, La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano se la cavarono piuttosto bene al botteghino nonostante qualche accidente di percorso. Negli Stati Uniti, il dittico subì la stessa sorte toccata a suo tempo alle due parti della versione di Joe May: di due pellicole della durata approssimativa di un’ora e quaranta ciascuna, il distributore American International ne ricavò una sola da poco più di un’ora e mezza, ridoppiata sommariamente e distribuita col titolo Journey to the Lost City (Viaggio nella città perduta). In Italia le cose andarono un po’ meglio, anche se la censura democristiana alleggerì qua e là le scene più audaci privando gli spettatori, fra l’altro, di gran parte della spettacolare danza sexy di Debra Paget davanti al cobra. L’edizione restaurata che avete nelle mani riporta il film al suo originale splendore, reintegrando le scene eliminate e offrendo agli appassionati dell’avventura cinematografica un vero e proprio anello mancante fra l’era classica e quella postmoderna.

Alberto Farina

* “Il film Kaly Yung avrebbe riguardato il più grande complotto criminale della storia indiana, la confraternita dei Thugs. Oltre dieci milioni di viaggiatori innocenti erano stati strangolati con il rumal, un fazzoletto curiosamente annodato sugli angoli, presumibilmente in onore della sanguinaria dea Kali, per derubarli degli oggetti di valore. Il fatto che a questa organizzazione segreta appartenessero anche Mahradschahs e altre personalità di alto livello resero alle autorità inglesi ancora più difficile debellare il malvagio culto. Ambientato nel 1875, il film si incentrava su un giovane medico che gestisce una clinica per curare il colera. Quando i suoi Sikh scompaiono durante una missione per fornirgli provviste, chiede a un ospite di indagare ma questi, un vecchio malato che non vuole guai, si rifiuta. La faccenda si complica ulteriormente quando il medico scopre che la ragazza che ha amato in Inghilterra era già allora moglie del vecchio. Viene commesso un omicidio ad opera dei Thug e i sospetti si indirizzano sul medico. Per cercare di scagionarsi, questi si mette a indagare personalmente insieme a un amico indiano (una ballerina li conduce dai Thug) e finisce coinvolto in varie avventure. Il suo amore e la comprensione per l’India prevalgono, i Thug sono sterminati e il suo nome riabilitato.” (Lotte Eisner)

Bibliografia essenziale:

Invito alla presentazione di “The Dark Screen” (2008) di Franco Pezzin e Angelica Tintori

Chi abita a Milano, o ci può capitare nel fine settimana, è invitato venerdì 21 novembre alla presentazione di THE DARK SCREEN, di cui ho scritto la prefazione. L’evento si terrà all’Atelier Gluck (Via Gluck, 45), alle 20.30. Interverrano gli autori Franco Pezzini e Angelica Tintori, la scrittrice Ben Pastor e l’editore Gargoyle Books Paolo De Crescenzo – oltre, naturalmente, al sottoscritto. Se capitate nei paraggi, venite a salutare.

Qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, la mia prefazione.

Hanno cambiato faccia? Storicamente saldi al vertice sociale dell’empireo dei miti horror, Dracula e i suoi discendenti si sono sempre distinti come creature particolarmente abili nel mutare forma. Ma la loro capacità di trasformarsi in lupi, pipistrelli o anche in brezza notturna è una bazzecola rispetto a quella di ridefinire il proprio ruolo nella scala sociale mantenendo sempre e comunque una posizione dominante. Via via che in Europa si disgregava anche il ricordo dei privilegi garantiti dai titoli nobiliari, i vampiri hanno saputo cambiare, se non il volto, quantomeno la divisa, senza mai farsi sfuggire nei decenni le redini del potere.

Si tratta, con ogni probabilità, di una questione fondamentale di vocazione: personaggi come il barone Frankenstein e il professor Griffin dedicano le loro esistenze ai rispettivi progetti scientifici (la creazione della vita e l’invisibilità) e ben di rado si avventurano al di fuori del loro laboratorio. Figure come la creatura di Frankenstein, il mostro della laguna nera o l’uomo lupo (e, se è per questo, anche il signor Hyde, frutto degli esperimenti di un altro illustre studioso come il dottor Jekyll) restano, di fatto, vittime della propria natura ferina o dei propri limiti intellettivi. Per non parlare degli zombi, i proletari del mondo horror, che solo nella forza del numero trovano effettivamente una loro disperata potenza. Al contrario, Dracula e i suoi successori sono il frutto di un ambiente che, tra gestione del feudo e impegnative campagne militari, ha sempre privilegiato il ruolo della strategia: sono, di natura, dei pianificatori, maestri nella seduzione e nella manipolazione delle menti più deboli. E quando puntano, senza esitazione, a fini spesso non meno alimentari di quelli di altre creature mostruose magari altrettanto celebri, si comportano però con la freddezza elegante del consumato giocatore di scacchi, ricorrendo in genere alla forza solo quando le cose cominciano a mettersi male.

Prima che un assassino, e un seduttore pressoché irresistibile, Dracula è fondamentalmente un politico ed è questo l’elemento esplicitato, fin dal titolo, da una pellicola tutto sommato misconosciuta come Hanno cambiato faccia di Corrado Farina: in questo film, così come nel successivo Amore all’ultimo morso, dell’americano John Landis (apparso oltre vent’anni più tardi) appare evidente come la progenie di Dracula abbia imparato a indossare il doppio petto del potere economico e politico o il gessato dei capimafia – una categoria, quest’ultima, che, come ben sappiamo, ha saputo a sua volta cambiare faccia e uniforme, mescolandosi irreversibilmente alla prima – e abbia saputo ricavarsi nuovi spazi, consolidando il proprio potere e anzi incrementandone la portata in modo esponenziale.

Già all’inizio degli anni Settanta, il protagonista di Hanno cambiato faccia è un potente uomo d’affari che ha il controllo pressoché assoluto su importanti settori dell’industria, che da tempo ha allungato i suoi tentacoli su banche e assicurazioni, che possiede giornali e televisioni e, pur non esponendosi in prima persona, è proprietario di alcuni partiti politici. Quasi quarant’anni più tardi, il paradosso proposto dal film è stato ampiamente raggiunto dalla realtà, nel nostro e in altri paesi, via via che lo sviluppo planetario delle logiche del profitto e della sopraffazione consentivano una inarrestabile concentrazione dei fili che muovono le vite delle nazioni in mano a un numero sempre più esiguo di potenti burattinai.

Il film di Farina si chiude con il trionfo finale del supervampiro Giovanni Nosferatu, suggellato da una citazione marcusiana, mentre i vampiri mafiosi di Amore all’ultimo morso di John Landis sembrano invece finire sconfitti grazie all’alleanza fra una vampira dotata di un’etica rigirosa e un poliziotto infiltrato nel clan: nel finale pirotecnico, dopo che tutta la sua banda è stata sterminata, anche il boss Sal Macelli viene fermato da una pallottola ben piazzata. Eppure il lunghissimo discorso che il capoclan pronuncia nel finale, mentre il suo corpo arde senza consumarsi, non sembra affatto un congedo: “Io sono il Potere, e tu non sei che una cacatina di mosca”, ruggisce verso il poliziotto che lo tiene sotto tiro, e l’impressione che dà non è quella di un essere in preda a un insensato delirio di onnipotenza. Il tono, invece, è quello di qualcuno che sa bene di aver perduto solo una battaglia. E che la guerra proseguirà con un esito scontato, perché la propagazione della stirpe vampirica fa parte della loro natura, nè più ne meno che la loro propensione a risorgere ogni volta dalle proprie ceneri.

Se le eccezioni non mancano (ma si limitano a pellicole satiriche: e citiamo per tutte l’interessante Zora la vampira, 2000, in cui il Dracula di da Toni Bertorelli è un Conte molto decaduto e ridottosi – sette anni prima dell’ammissione della Romania nell’Unione Europea – all’umiliazione di dover penetrare in Italia come extracomunitario clandestino), molte di più sono le conferme della regola generale. Anche quando si parla di vampiri apparentemente emarginati dalla società come in Ragazzi perduti di Joel Schumacher, dove il vero capo di un gruppo di giovani succhiasangue si rivela essere un membro ben più rispettato della comunità cittadina. L’unica forma di potere difficilmente compatibile con la natura vampiresca sembra essere, per motivi facilmente intuibili, quello religioso – che tuttavia può in qualche caso subire la tentazione di una difficile alleanza. Penso al cardinale interpretato da Maximilian Schell in John Carpenter’s Vampires (ma l’ispirazione è un romanzo di John Steakley) il quale, alla dubitosa e lunga attesa di una vita eterna di stampo cristiano, preferisce (e mal gliene incoglie) la sicurezza tangibile e immediata della non-morte.

Ma bando alle divagazioni: se la filmografia dei vampiri è oceanica, pullulante di variazioni talvolta eretiche (nell’ottimo Il buio si avvicina si utilizza una trasfusione di sangue per restituire a una vittima del morso fatale la sua natura umana!), approcci che rinunciano all’elemento fantastico (e citiamo per tutti il Wampyr di Romero) o che al contrario imboccano la via della fantascienza (i tre film infedelmente ispirati a Io sono leggenda di Richard Matheson – originariamente uscito nel nostro paese col titolo I vampiri nello stesso anno in cui usciva l’omonimo film di Riccardo Freda, e vai a sapere se sia stato l’editore del romanzo a rubare il titolo ai distributori del film o viceversa), è indubitabile che, con buona pace di Le Fanu o Polidori e degli altri più o meno illustri predecessori, l’opera centrale di tutta la mitologia vampiresca sia il Dracula di Bram Stoker, romanzo più citato che effettivamente letto (come accade da tempo alla stragrande maggioranza dei veri classici) ma anche punto di riferimento di tutta la mitologia, nonostante i tradimenti, sia letterali che sostanziali, commessi da quasi tutte le sue versioni cinematografiche. Abbastanza curioso, quindi, che nessuno avesse ancora preso l’iniziativa di partire da lì per tentare di leggere in modo analitico tutto quello che da Stoker è nato in oltre centodieci anni di storia del cinema (un’età che, guarda guarda, si sovrappone quasi perfettamente a quella del libro, che fu pubblicato la prima volta pochi mesi dopo la prima, storica, manifestazione pubblica dell’invenione dei Lumiére).

Ci hanno pensato, finalmente, Franco Pezzini, Angelica Tintori e Paolo De Crescenzo con il libro che tenete nelle mani. In questo lavoro davvero monumentale, l’opera di Stoker non è solo la pietra di paragone di tutti i film che ne sono stati tratti: diventa invece il filtro attraverso cui ciascuno di quei titoli può essere analizzato in modo approfondito. Perché è evidente che ogni deviazione o modifica rispetto alla fonte originale ha avuto una sua ragione precisa nel contesto storico in cui è stata decisa – e proprio per questo si può rivelarsi, a un esame attento, estremamente significativa. Non solo: poiché ogni nuovo adattamento di Dracula diventa, in qualche modo, parte di un unico canone, le stesse varianti tendono a diventare fonte a loro volta, in una sovrapposizione sempre più complessa di rimandi, di ispirazioni e plagi, di influenze reciproche.

Per gli autori di The Dark Screen, il romanzo di Stoker è diventato la stella polare nell’esplorazione di una impressionante quantità di titoli: decine e decine di trame minuziosamente descritte, collazionate e notomizzate per metterle a confronto con l’originale. Ottenendo alla fine, per rubare un termine utilizzato più frequentemente in geologia, un appassionante carotaggio che sonda in profondità la ormai secolare stratificazione delle versioni, rivelando costanti e variazioni di una produzione cinematografica sterminata.

Il risultato è uno strumento inestimabile e davvero unico per inseguire il mito del vampiro attraverso le sue mille trasformazioni. Se Dracula e i suoi accoliti hanno cambiato faccia e, oggi più che mai, continuano a succhiarci il sangue, The Dark Screen è il manuale fondamentale per aiutarci a riconoscerli. E, se in noi alberga ancora un po’ della grinta di combattenti valorosi come il professor Van Helsing, tentare di riorganizzare la resistenza.

Alberto Farina

“Storie di animali” (2008)

Non avrei mai pensato che potesse succedere, ma ho scritto un libro per bambini.

In realtà, tutto è cominciato quasi dieci anni fa. Avevo finito di tradurre per Il Castoro un libro sulla lavorazione di “Psyco” di Alfred Hitchcock, pubblicato in Italia sulla scia dell’uscita del remake di Gus Van Sant (intitolato, senza quella piccola censuretta provinciale che era toccata all’epoca al capolavoro di Sir Alfred, “Psycho”) e ci avevo trovato dentro un paio di macabre poesiole che mi ero divertito a rendere, in italiano, cercando di reinventarne le rime per mantenerne, più che il concetto letterale, la giocosità. C’era un piacevole limerick, ad esempio, scritto da autore ignoto nel 1957:

Un certo Ed, bizzarro giovanetto,
una ragazza non la portava a letto:
se gli pungea vaghezza
ne tagliava via mezza
e conservava il resto in un cassetto.

Ma c’erano anche filastrocche più articolate e narrative come questa:

La vigilia di Natale tutto tace nella scuola vuote e buie son le scale né una mosca più ci vola. Gli insegnanti sono appesi per benino dal soffitto: Eddie e Gus, da loro attesi, si avvicinano al convitto.

A quanto pare, queste piccole traduzioni piacquero abbastanza da suggerire al Castoro che potevo essere la persona adatta a tradurre in italiano una divertente serie inglese di libri per bambini. Nacquero così sei librini tutti in rima: Storia di ragno, Storia di plancton, Storia di lumacone, Storia di gatto, Storia di cane e Storia di pipistrello. Libricini coloratissimi e paradossali, in cui la personalità di alcuni animali veniva raccontata con un umorismo spesso davvero surreale e quasi sempre (almeno per me) irresistibile.

Poi gli anni sono passati, io ho continuato a occuparmi soprattutto di cinema – per il Castoro e per altri editori – fino all’estate scorsa, quando Renata Gorgani mi ha fatto vedere un libro francese che aveva deciso di acquistare. Era una raccolta di bellissimi disegni di animali di vario genere, solo che i testi erano davvero modesti – scritti, probabilmente con la mano sinistra, da uno scrittore francese che, sospetto, credeva di aver di meglio da fare. La proposta per me era di buttar giù qualche raccontino alternativo… un po’ più corposo del micragnoso paio di righe elargite dall’originale, ma comunque contenuto in meno di una cartella, e dedicato a raccontare come il tale animale avesse ottenuto una delle sue caratteristiche più tipiche. Ma i tempi erano strettissimi e quindi ero incoraggiato a trarre “ispirazione” da racconti popolari o tradizionali, o anche a classici fuori diritti.

Due dei racconti (quello sul tucano e quello sulla zebra) erano già stati scritti e dovevano servire da modello. Poiché tra gli animali che dovevo ritrarre c’erano il leopardo, il rinoceronte e l’elefante, per cominciare mi sono rivolto a Kipling e alle sue “Just So Stories” che da piccolo mi avevano affascinato. I primi tre racconti sono, dunque, dichiaratamente, un adattamento delle sue invenzioni geniali – e mi ha sorpreso scoprire che non avrei avuto bisogno di ripassarle: ne avevo ancora un ricordo vividissimo nonostante il libro non lo leggessi da almeno trent’anni.

Solo che dopo aver adattato in breve le tre storie che ricordavo mi sono accorto che se avessi dovuto mettermi a cercare, leggere, scegliere e riscrivere decine di storie di animali non ce l’avrei mai fatta a consegnare in tempo. Si faceva prima a inventarle da zero, cercando – per quanto era nelle mie possibilità – di seguire le orme di Kipling. Non sapendo se le storie funzionavano, ho provato a raccontarle a mio nipote di sei anni. Sono rimasto sorpreso quando, raccontandogli per rompere il ghiaccio la storia dell’elefante (una di quelle adattate da “Just So Stories“, in effetti) è subito saltato su dicendo: “Questa la so!” Non è che mi fossi vantato che fosse farina del mio sacco, ma è riuscito a farmi sentire colto in fallo – così ho evitato accuratamente di raccontargli le altre non originali e mi sono sparato tutte quelle che avevo inventato solo io.

Mi è sembrato molto interessato. Non solo, quando, un paio di mesi dopo, gli ho detto che il libro stava per uscire, lui è saltato subito su e ha detto: “Ah, quelle storie in cui”… e ha cominciato a snocciolare le trame che gli avevo raccontato – ricordandosi dei dettagli che io stesso mi ero già completamente dimenticato. Di certo, la cosa prova solo che la mia testa è più arrugginita di quella di mio nipote, ma preferisco pensare che le storie gli siano piaciute.

Il link per Ibs: http://www.ibs.it/code/9788880334682/hess-paul/storie-animali.html
Il link al sito del Castoro: http://www.castoro-on-line.it/libri/schedadellibro.aspx?IDCollana=2&ID=544
Il link del libro su Anobii: http://www.anobii.com/books/Storie_di_animali/9788880334682/01703c43d2343fa941/

Aggiunta il 9 dicembre 2008: scopro che il libro su Psycho è stato appena ripubblicato con una nuova copertina un po’ più carina di quella precedente. Eccola. Nel frattempo, sono lieto di potermi bullare del fatto che a Più libri Più liberi, la fiera romana della piccola editoria che si è chiusa proprio ieri al Palazzo dei Congressi, Storie di animali è andato esaurito!

La scoperta della lentezza – Bill Viola


È cinema o fotografia? Vedendo una mostra di Bill Viola, può capitare di avere qualche dubbio sull’etichetta da attribuire a questa o a quell’opera. E lasciamo stare la scappatoia di dichiarare che anche il cinema è, a tutti gli effetti, fotografia 24 volte al secondo. Fin dall’etimologia, “cinema” evoca il senso del movimento – mentre molte delle creazioni di Viola, se viste distrattamente, possono essere registrate istintivamente come immagini statiche.

Non è proprio così, naturalmente, o il dubbio non avrebbe senso. Gran parte delle sue opere sono, a tutti gli effetti, film, ripresi però con telecamere ad altissima velocità di modo che, in fase di proiezione, appaiano rallentati al punto da assomigliare a fotografie tradizionali. Se ci si ferma abbastanza a lungo ad osservarle – o anche se si distoglie lo sguardo per un attimo per poi ritornarvi sopra – ci si rende conto di trovarsi davanti a un perpetuo divenire.

La sensazione di spiazzamento si ha soprattutto con una serie di ritratti di visi addolorati che risalgono ormai a svariati anni fa: lavori come Dolorosa, Anima o The Locked Garden, tutti del 2000, danno l’impressione inquietante di essere spiati dalle foto che appaiono in una cornice. L’effetto è analogo a quello che si proverebbe se scoprissimo che una statua, un manichino ma anche un oggetto non antropomorfico cambiassero posizione mentre non li vediamo. Un po’ come gli animali intagliati nelle siepi del romanzo Shining di Stephen King (assenti nel film di Kubrick ma, mi dicono, presenti nella versione televisiva di Mick Garris). L’istinto e l’abitudine rassicurano sul fatto che si tratta di oggetti immobili, e la scoperta che così non è ti ricorda all’improvviso quanto ogni essere in trasformazione finisca per abitare un suo continuum di divenire che è percepibile solo da chi ne abita uno sufficientemente vicino. Per cui, ad esempio, la crescita di un albero è troppo lenta per essere notata ad occhio nudo, mentre magari una pallottola (ma anche un albero visto dal finestrino di un treno in corsa) può sfiorarci senza che si riesca a registrarla con l’occhio. Sono i casi in cui il cinema riscopre la sua vocazione originale di indagatore della realtà nel tempo, di occhio speciale capace di cogliere ciò che l’occhio umano non può percepire con i metodi del time-lapse, del ralenti, o di qualsiasi modifica in fase di ripresa del ritmo di cattura delle informazioni – modifica che si traduce, dato che la velocità di proiezione è un dato sostanzialmente non variabile, in una diversa velocità di visione.

I quadri di Bill Viola sono come fotografie che, a differenza di quelle tradizionali, impongono allo spettatore un ritmo tutto loro di visione. Le immagini, trasmesse da schermi al plasma, le si esplora con lo sguardo come i ritratti tradizionali, senza essere pilotati, come accadrebbe in un film a velocità naturale, dalle scelte di montaggio, di cambio inquadratura o di azione, eppure la percezione della loro natura sfuggente le rende ipnotiche. L’accenno, l’avvio di un battito d’occhi, del socchiudersi delle labbra, la vaga sensazione del tendersi di un muscolo facciale – tutto questo finisce per calamitare l’attenzione in un modo tutto nuovo, al punto che ci si può scoprire, cinque minuti dopo, a fissare ancora la stessa faccia, la cui espressione non è mutata che in maniera a stento percettibile.

E poi ci sono lavori più, diciamo così, d’azione: in cui cioè, vuoi perché la pellicola in fase di ripresa scorre meno veloce (e quindi l’effetto di rallentamento è minore), vuoi perché la scena ripresa contiene un maggior movimento, la confusione con la fotografia non si dà e, semplicemente, si ha modo di apprezzare i gesti e i cambiamenti di espressione con la percezione amplificata che il rallentatore sempre produce, sia che si tratti di immagini documentarie, mirate a scomporre in un maggior numero di unità temporali, un’azione determinata, sia che si parli di una delle celeberrime sequenze super-montate di Brian De Palma come quella da Gli Intoccabili.

A parlarne così sembra una fesseria – e qualcuno potrebbe sostenerlo con ragionevoli speranze di non essere smentito. C’è anche chi ha provveduto, su YouTube, a pubblicare qualche parodia – e conosco cineasti che ritengono Viola poco al di sopra di un bluff che si limita a produrre, dandosi arie da sperimentatore e senza tentare di raccontare storie, lo stesso tipo di lavoro che qualsiasi filmmaker realizza più o meno consapevolmente quando produce immagini in movimento. Io so che da quando avevo avuto modo di visitare una sua mostra al Paul Getty Museum di Los Angeles nel marzo 2003, le sue foto viventi mi sono rimaste impresse nella mente, superando la mia pregiudiziale diffidenza nei confronti della videoarte e, in generale, di gran parte dell’arte contemporanea.

Per chi è o può essere a Roma, la Mostra di Viola è al Palazzo delle Esposizioni su via Nazionale. Oltre ai ritratti, da segnalare l’opera su cinque schermi Catherine’s Room (2001) che depotenzia il rallentatore articolandosi in una sorta di quintuplo split-screen che propone simultaneamente cinque fasi della giornata di una scrittrice eremita (ispirata, pare, a Santa Caterina), quella quadrupla intitolata Four Hands (2001, quattro paia di mani di persone di età diverse che si avvolgono creando immagini quasi astratte) e il bellissimo Observance (2002), che mostra una processione di persone in fila a visitare qualcosa fuori campo che potrebbe essere il feretro di una persona amata. Date un’occhiata aglio estratti dei filmati che si vedono sul sito della mostra e poi stanziate un paio d’ore fra qui e gennaio. Una visita la merita.

“Into the Wild” (2007) di Sean Penn

AVVERTENZA: chi non ha visto il film e non ha letto il libro (e non si è fatto spoilerare uno o l’altro) sappia che a partire dal prossimo paragrafo potrebbe trovare elementi rivelatori del finale della storia: non si appresti dunque a rompere e smetta di leggere ora, subito.

Anche se penso che, forse, il finale di questa storia uno dovrebbe conoscerlo prima: il libro uscì dopo che la storia aveva avuto una certa eco sui quotidiani, la conclusione era evidente fin dalla copertina e, se non ricordo male, dichiarata dall’autore Jon Kracauer fin dalle primissime pagine del primo capitolo.

Detto questo, vado.

Nel libro “Il giorno della civetta” c’è una frase che mi piace molto e la riporto a memoria, sicuramente parafrasando. La verità è come la luna in fondo a un pozzo. Tu ti affacci e guardi in basso, e vedi la luna. Ma se ci cadi dentro, quello che trovi in fondo non è la luna, è la verità.

Ed è una verità di questo genere quella che trova, alla fine del film e all’inizio del libro che l’ha ispirato, il ventiquattrenne Chris McCandless: appena uscito, con ottimi voti, dall’università, si rende conto di non avere alcuna intenzione di seguire la strada che gli viene tracciata dai genitori. Solo che a differenza di Benjamin Braddock (Dustin Hoffman in “Il laureato“) la sua rabbia giovane prende una via più radicale: una rinuncia quasi francescana a tutti i suoi beni terreni e la partenza, con zaino e poco altro in spalla, per cercare di affrontare il mondo con il minor bagaglio possibile.

L’abbandono di genitori e sorella senza un biglietto di spiegazioni, l’autostop, qualche lavoretto lungo la strada per guadagnarsi il necessario per sopravvivere (ma prima di partire ha dato in beneficienza 24.000 dollari, tutti i suoi risparmi, destinati al proseguimento degli studi), l’incontro di vari e preziosi esempi di umanità: ma l’obiettivo finale è la solitudine totale, il rapporto diretto con la natura e la sfida della sopravvivenza senza alcun casco protettivo. Chris vuole arrivare in Alaska, e arrivarci da solo e vivere da solo in mezzo alla foresta, alla ricerca di una personale rivoluzione spiritual/esistenziale.

Ma la natura è bastarda, e appena abbassi la guardia è pronta a fregarti. Il protagonista di “Into the Wild” cerca la verità, e forse la trova, ma la trova in fondo al pozzo. Intrappolato in un vecchio autobus abbandonato, ridotto alla fame, muore, dolorosamente, di stenti, quasi immaginando, nel momento estremo, il suo ritorno fra le braccia dei genitori.

La storia di McCandless è accaduta davvero: se ne parlò abbastanza sui giornali al tempo della tragedia, e ancora di più quando il giornalista Jon Krakauer le dedicò un libro che ricostruiva la faccenda nei dettagli (in italiano è uscito come “Nelle terre estreme” e Corbaccio lo ha ripubblicato a ridosso dell’uscita del film. 268 pagine, 16 euro). Testo molto secco, cronachistico, senza il minimo compiacimento, con le testimonianze di alcune delle persone che avevano incontrato McCandless lungo la sua avventura, e anche con gli appunti, agghiaccianti, con cui il ragazzo stesso aveva documentato la sua fine: un diario fatto di annotazioni quasi tutte brevissime e che fu ritrovato nell’autobus accanto a quel che restava del corpo.

In seguito, Krakauer avrebbe scritto un libro divenuto molto più celebre su una vicenda analoga: intitolato “Aria sottile” (Into Thin Air), è la storia di un’escursione sull’Everest finita in tragedia multipla ed ha un tono meno distaccato, anche perché in quel caso l’autore era stato fra i protagonisti dei fatti raccontati. “Into the Wild” invece è, davvero, poco più di una ricostruzione, in cui l’autore dà il massimo rilievo alla figura di McCandless, cercando di attenersi ai fatti o alle dichiarazioni, e senza star troppo a speculare sui perché.

Anche perché non ce n’è bisogno: come canta Guccini con nostalgia, a vent’anni si è stupidi davvero. E la ricerca adolescente della morte diventa una grande storia quando il protagonista riesce davvero a trovarla. Chi legge “Nelle terre estreme” lo chiude con le lacrime agli occhi, riconoscendo nel protagonista qualche amico che a suo tempo ha perso anche lui la sfida con i propri limiti. E magari riconoscendo anche se stesso, quella certa volta che ha fatto una cazzata gigante ed è andata bene, ma avrebbe anche potuto andare male.

È un libro abbastanza smilzo, che si legge velocemente. Sean Penn però ne ha tratto un film da 146 minuti, interminabile, ripetitivo, verboso e, quel ch’è peggio, girato ricorrendo a una costante ricerca di stile che dà a tutta l’operazione una fastidiosa patina di insincerità. C’è di tutto nel film: i jump cut, le accelerazioni e le decelerazioni, le inquadrature sghembe, i freeze frame, i fuori fuoco, persino un offensivo sguardo in macchina. Un intero catalogo di mossette da cinema giovane, indipendente, da nouvelle vague con cinquant’anni di ritardo. Tutta roba che, per carità, c’era già anche nel bell’episodio diretto da Penn nell’antologia sull’11 settembre, ma che lì si applicava a una storia dichiaratamente simbolica e irreale, e comunque limitata a poco più di dieci minuti di durata.

Penn è stato uno dei protagonisti principali di “La sottile linea rossa” e sorprende un poco che abbia scelto un approccio così diametralmente opposto a quello di Malick per una storia in cui il tema della bellezza spietata e insensibile della natura era così forte. Però, vabbé, non è detto che lo stile di Malick avrebbe funzionato meglio con questa storia, e a Penn sembrano interessare di più gli incontri lungo la strada: due hippy un po’ lontani dagli anni di Kerouac, un coltivatore di grano, una sedicenne bellissima e sola, un vecchio soldato rimasto vedovo, una coppia di giovani danesi. Sono i momenti migliori del film, quelli in cui il compiacimento registico è meno evidente, e magari sono un po’ troppi ma funzionano.

Funziona meno, invece, l’elemento familiare: William Hurt e Marcia Gay Harden sono bravi come sempre, ma diventano due genitori troppo programmaticamente imbalsamati. E la voce fuori campo della sorella diventa presto un commento ingombrante, soprattutto quando si aggiunge a quella del protagonista (e chissà che in questo, nell’uso massiccio del parlato, Penn non si illudesse di seguire le orme di Malick). Si parla troppo e troppo a lungo, in “Into the Wild”, e si sta troppo sulla famiglia, quella famiglia che McCandless aveva invece scelto di lasciare indietro, almeno per un po’.

Quando si arriva agli ultimi, strazianti, venti minuti, la noia inquina da troppo tempo la suggestione della tragedia e toglie al film un’enorme parte del potenziale impatto emotivo. Forse solo chi non sa, prima di entrare, come andava a finire la faccenda può riuscire davvero a emozionarsi: ma è indizio del fatto che chi esce commosso lo deve alla forza della storia, non a quella di un film nel complesso piuttosto deludente.

Roma, Festa del cinema, 25 ottobre 2007