Le 10 cose da sapere prima di andare al festival [edizione Roma 2014]

  1. Procuratevi il catalogo: i film (in buona parte) non sono ancora stati visti da nessuno e non troverete ancora recensioni sui giornali o su internet.
  2. Scegliete i film in base al regista e non all’attore. Ne sarete sicuramente più soddisfatti.
  3. Rischiate fidandovi del vostro intuito: potrete sempre uscire prima dalla sala ma, se il film è bello, proverete il gusto di scoprire qualcosa che nessuno ha mai visto.
  4. Non escludete a priori le retrospettive. Ci sono film bellissimi che solo a un festival potete vedere in sala.
  5. Portatevi acqua e panino da casa se non volete passare ore in fila al chioschetto del kebabbaro – o prendere al bar un tramezzino che costa come un’aragosta.
  6. Niente tappeti rossi… e per favore non chiamiamolo red carpet.
  7. Non chiedete i biglietti gratis. Se qualcuno ne avrà sarà ben contento di darveli senza che voi dobbiate chiederli. Sono loro che cercano il pubblico, non voi che cercate i biglietti.
  8. Non chiedete autografi, ma se proprio non potete farne a meno vedete prima il film.
  9. Quanto siete in fila, non scoraggiatevi per l’attesa. È lì che incontrerete altri come voi per scambiare idee sui film visti o dritte su quelli da vedere. Il festival è quello.
  10. Non trascurate i vostri affetti. È solo un festival  🙂

“Across the universe” (2007) di Julie Taymor

Dopo un film di Julie Taymor viene voglia di mettersi a dieta per qualche giorno: vedere, per un po’, film in bianco e nero, rigorosi piani sequenza, minimalismo, silenzio, non oltre gli ottanta minuti che erano la norma qualche decennio fa, quando il cinema non era ancora obbligato a strappare gli spettatori alla programmazione televisiva.

Però, come avviene con certi cenoni familiari nelle occasioni importanti, ogni tanto una bella scorpacciata bisogna pur farsela, e un film come “Across the Universe” è un’occasione più che discreta per tornarsene a casa barcollando, alla ricerca di un bicchiere di bicarbonato visivo.

La Taymor è una provocatrice barocca che viene dal teatro (e ci torna spesso e volentieri) e che, come spesso accade ai registi di derivazione teatrale quando impugnano la macchina da presa, si scatena nell’esplorazione forsennata di tutti i mezzi che il teatro non offre. In misura minore e modi diversi è quel che è successo, soprattutto nei primi film, a Mike Nichols (e, più di recente, a Sam Mendes e perfino
al nostro Fausto Paravidino), solo che la Taymor sembra aver intenzione di rilanciare di film in film, così che “Across the Universe” è stilisticamente ancora più radicale di “Frida”, che a sua volta esasperava le tendenze all’eccesso che erano già evidenti in “Titus”.

In qualche modo, l’eccesso viene qui in parte giustificato dal genere cui il film appartiene: “Across the Universe” è a tutti gli effetti un musical, costruito su un’ampia scelta di canzoni dei Beatles utilizzate intere o in frammenti, di volta in volta per sostituire una o più battute di dialogo, per reggere un’intera scena, o anche semplicemente per rappresentare un numero musicale che fa parte della narrazione. Il musical è per sua natura un genere a stilizzazione marcata, sia che ci si sbizzarisca nel montaggio sia che ci si valga di coreografie elaborate, sia, infine, che ci si affidi agli artisti della composizione digitale per combinare l’uno e l’altro con le regole e le potenzialità dell’animazione.

Se un problema c’è, è nel materiale di partenza: partendo da Shakespeare o dalla biografia di un personaggio interessante come Frida Kahlo, la Taymor disponeva di basi molto solide su cui costruire le più immaginose stiribaccole visive. Ma i Beatles sono materiale molto più difficile: estrapolate dal loro contesto, le canzoni sono, spesso, solo canzonette e illustrarle in modo significativo non è affatto scontato. È probabilmente per questo che la Taymor ha ambientato il film nell’epoca della contestazione, di Timothy Leary, degli hippies e del flower power, imbastendo la storia dell’amore fra un ragazzo di Liverpool di estrazione proletaria e una fanciulla dell’America benestante, benpensante e benenata.

Ma non basta: le immagini e nuovi arrangiamenti riescono a dare qualche spessore in più ad alcune canzoni d’amore, però poi il film procede per la sua strada senza sviluppare i temi a cui accenna: l’incipit di “Girl” annuncia un amore che si rivelerà molto meno tormentato di quanto non sembri promettere (e non può che ricordare l’apertura del pur sopravvalutato “Moulin Rouge”, che il suo bel po’ po’ di dramma in serbo ce l’aveva), “Something” anticipa la separazione fra i due amanti in un momento che si direbbe prematuro. E “I Want To Hold Your Hand”, resa particolarmente tenera da un contesto omosessuale, introduce un tema che lì, semplicemente, si esaurisce.

“Across the Universe” è un po’ tutto così: funziona bene finché si tratta di descrivere un clima, ma inciampa ogni volta che accenna a voler alzare il tiro, con numeri musicali che esprimono la promessa di un qualcosa senza che il resto del film si senta obbligato a mantenerla. C’è un bellissimo balletto sulla visita di leva dei giovani da spedire in Vietnam, ma la provocazione rimane visiva e si spegne sull’ultima nota. Il grande conflitto fra i due protagonisti si risolve nel fatto che lei decide di impegnarsi a fondo nella protesta, mentre lui si chiude nella sua ricerca artistica e diventa geloso della “causa” che impegna la fidanzata. E quando alla fine, dopo il Vietnam, gli arresti e le sparatorie sugli studenti, questo amore mica tanto contrastato si chiude in bellezza con un grande abbraccio, per giunta sulle note di “All You Need Is Love”, l’impressione è che la Taymor abbia scelto la via più facile, mettendo su un’antologia beatlesiana che ricorda certi greatest hits prodotti dalle case discografiche in vena di strenne di facile smercio, senza minimamente porsi il problema di ricavarne un concept album.

È un limite importante, che forse spiega l’accoglienza nel complesso non entusiasmante che il film ha ricevuto da parte di alcuni critici. Eppure non si può negare che “Across the Universe” resti nonostante tutto uno spettacolo generoso, defatigante in modo piacevole, strapieno di idee, di colori e, ovviamente, di musica. Con un paio di partecipazioni straordinarie che dovrebbero essere apprezzate da chi conosce meglio di me il mondo del rock (ma anche no: ho sentito i recensori del gradevole podcast Filmspotting lamentare che l’apparizione di Bono sia quasi offensiva, e che la presenza di Joe Cocker abbia come unico risultato quello di far risaltare quanto i protagonisti, per quanto talentosi, non siano vocalmente all’altezza di cantanti veri e propri).

Alla Festa del Cinema di Roma, la sala era entusiasta: il ritmo del numero musicale che chiude il film è stato accompagnato tutto dagli applausi, che hanno proseguito lungo tutti i titoli di coda e si sono prolungati per altri cinque minuti a schermo spento, con la Taymor e gli altri membri del cast che si godevano il trionfo. Vedremo se le cose andranno altrettanto bene nelle sale, ma per apprezzare come merita “Across the Universe” è consigliabile dare prima una piccola sfoltita alle proprie aspettative.

“Lettera agli spettatori” (2007), di Autori Vari

La Festa del Cinema di Roma si è chiusa sabato mattina, con la premiazione dei film elencati da Nick-cola ma anche con un piccolo evento importante: la proiezione di un filmato di sei minuti e spiccioli che costituisce una risposta cortese ma ferma alla cattiva stampa che il cinema italiano continua ad avere. Trovate il link in fondo al post quindi, se volete, potete saltare direttamente questa piccola premessa.

Io bazzico questo gruppo ormai da dieci anni, e mi sono fatto la fama di quello che difende il cinema italiano ad ogni costo. Chi legge i miei post sa che non è vero: che se qualcosa non mi piace non ho problemi a dirlo, ma che mi dà fastidio l’attacco pregiudiziale. Le sciocchezze di quelli che, seguendo una propaganda troppo diffusa per essere casuale, lamentano che il cinema italiano sia solo un magna magna di clientelismi, di assistenzialismo vuoto, di mantenuti di stato.

Credo che nessuna persona sensata possa credere davvero una cosa simile, ma il più delle volte è questione di disinformazione più che di mancanza di intelligenza. E’ per questo che da un annetto, di fronte ad anni e anni di diffamazione sistematica da parte di ignoranti e portatori di malafede, ha cominciato a coagularsi un’iniziativa che mi sembra animata più da un legittimo bisogno di autodifesa che da spirito rivoluzionario. Un gruppo di persone che vogliono cominciare a mettere qualche puntino sulle i, e magari cominciare a fare un po’ la guardia a politici che dicono dicono e di rado fanno davvero qualcosa di concreto.

Si chiamano “Centoautori” e sono partiti in sordina, alla Libreria del Cinema fondata qualche anno fa da Giuseppe Piccioni e da alcuni altri cineasti o appassionati o studiosi (a memoria: Ludovico Einaudi, Jasmine Trinca, Domenico Procacci, Flavio De Bernardinis e altri). Poi hanno cominciato a crescere, diventando un movimento, riscoprendo il valore della collaborazione, del dialogo fra colleghi, dell’azione di gruppo. E senza la colorazione politica di entità come, ad esempio, l’ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici). Hanno anche un sito: http://www.100autori.it.

Qualche tempo fa, in una serata condotta da Iacona e trasmessa da Raitre, un po’ di nodi sono venuti al pettine della prima serata televisiva. Se ne parlò su un thread lanciato da uno degli sporadici, ma sempre illuminanti, post di Ernesto Gastaldi (uno dei grandi sceneggiatori di quando c’era ancora una industria del cinema italiano) e che potete recuperare qui. Ricordo che quella sera Piccioni aveva, con accorata cortesia, fatto notare che Rutelli non aveva dato gran seguito alle vaghe promesse di impegno del governo per raddrizzare un po’ di storture nella nostra industria cinematografica.

Sono passati due mesi, e non si sono viste grandi novità, così i Cento Autori hanno realizzato un video che suggerisco a tutti di vedere. Merita, e potrebbe cominciare a rettificare un po’ di cretinate che si continuano a sentire in giro.

Qui sul gruppo stiamo spesso a fare i confronti fra l’industria del cinema italiano, ridotta a poca cosa, e a quella del cinema francese, che ha ricominciato da tempo a imporre nel mondo prodotti commerciali di ottima qualità. Sono i frutti di due politiche completamente diverse: filotelevisiva da noi, non filotelevisiva oltre le Alpi. E non è solo una questione di cultura: è anche una questione di denari, perché un cinema in buona salute come quello francese è un moltiplicatore di denaro. Oltre che di cultura.

Il video è questo. Poi, se mai, ne parliamo.

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“The King of Kong: A Fistful of Quarters” (2007) di Seth Gordon

Perché ancora oggi ci ricordiamo chi era il Barone Rosso? Perché è l’aviatore che, nel corso della prima guerra mondiale, riuscì a buttare giù da solo più nemici di chiunque altro. 86 aerei abbattuti, un numero incredibile, soprattutto se si pensa che il secondo in classifica ne aveva totalizzati poco più di venti.

Relata refero: sono in treno e non ho modo di controllare, ma più o meno sono questi i dati snocciolati da uno dei protagonisti di questo spassoso documentario, nel corso di una spericolata analogia. Il Barone Rosso era, all’epoca, il numero uno dell’aviazione teutonica per mira, riflessi, coordinamento fra corpo, mente e strumentazione. Più o meno come il campione mondiale di Donkey Kong.

Chi ha all’incirca quarant’anni, Donkey Kong lo ricorda sicuramente: grossomodo coevo del più celebre Pac-Man, era quel videogioco in cui un omarino baffuto deve arrampicarsi su per complicate strutture per salvare la sua ragazza da un gorilla che l’ha rapita – schivando, nel contempo, i barili che lo scimmione gli lancia addosso dalla vetta, ma anche superando altre insidie come le palle di fuoco, le molle rimbalzanti e gli ascensori. Quelli della mia generazione ci hanno giocato un po’ tutti: i videogiocatori successivi lo hanno conosciuto soprattutto nelle incarnazioni e varianti successive, quando l’omarino baffuto è stato battezzato Super Mario e dotato di un fratello (Luigi), creando la coppia dei Super Mario Bros. – portata addirittura sullo schermo in uno dei primi, famigerati, adattamenti per il cinema di videogiochi di successo.

Per la maggior parte di noi, l’era dei videogiochi da “arcade” ha poi lasciato spazio ad altri passatempi, per molti è andata ad arricchire il patrimonio di memorie nostalgiche dell’adolescenza. Per qualcuno, però, Donkey Kong è rimasto un’attività divorante, un’ossessione, un motivo di vita e di affermazione personale. Esistono persone che posseggono, nel loro garage, le pesanti cabine originali, rilevate dalle sale giochi e mantenute amorosamente in funzione per due decenni. Persone che ancora oggi sono capaci di giocare per ore, all’inseguimento della “partita perfetta”, quella in cui riesci a saltare tutti i barili, a spegnere a martellate tutte le palle di fuoco, a prendere tutti gli ascensori e arrivare al ventiquattresimo, impossibile, schermo del gioco, il cosiddetto KILL SCREEN, quello in cui la memoria del computer non basta più a gestire il gioco e l’omarino baffuto perde, automaticamente, una vita dopo pochi secondi, qualsiasi cosa stia facendo, anche senza barili nei paraggi.

C’è gente che da un quarto di secolo tiene in piedi un’organizzazione per consentire i campionati di Donkey Kong, c’è chi passa ore e ore a guardare vhs su cui videogiocatori di tutti gli Stati Uniti hanno registrato le riprese delle loro partite, per controllare che non ci siano trucchi e, nel caso, convalidare i record che i proponenti sostengono di aver conseguito. E c’è chi sulla propria posizione di campione rimasto imbattuto per vent’anni ha costruito la sua vita e il suo successo personale, e anche un codazzo di fedeli accoliti disposti a tutto per poter toccare al maestro il lembo del mantello.

“The King of Kong: A Fistful of Quarters” è la storia di questo super campione, e di uno sfidante timido che tenta di battere il suo record di ottocentomila punti e rotti – non tanto per il gusto di sconfiggere la persona, quanto per dimostrare a se stesso di poter essere primo in qualcosa, dopo aver fallito come musicista, come giocatore di baseball e di basket e come imprenditore. La riuscita e il fallimento della propria vita, dopotutto, è in una certa misura una questione personale, e se non si è ottenuto il successo nei campi in cui si misura la gente normale, tutto sommato, non si vede perché non si dovrebbe poterlo fare cercando di salvare una ragazza di pixel da un gorilla di pixel, saltando migliaia di barili fatti di pixel.

Ci sono di mezzo questioni di regole: un record documentato da un video vale come un record conseguito in pubblico, durante un torneo? Le macchine sono tutte uguali o ce ne sono alcune su cui è più o meno facile giocare? Non è che si possono taroccare i software? E’ lecito imprecare durante la partita?

E poi ci sono questioni più profonde: la paura e il desiderio del confronto, il potere delle amicizie, della popolarità, del denaro, di un titolo acquisito, il bisogno di dimostrare qualcosa a chi ti sta intorno perché questo significa dimostrarlo a se stessi. Oltre alle antiche considerazioni che solo chi ha videogiocato a lungo può forse davvero capire: l’ossessione della sfida, l’alienazione che si cura e si alimenta allo stesso tempo, la semplificazione elettronica di tensioni che nella vita non si presentano mai in schermi ripetitivi, l’ipnotico sprofondare in ragionamenti che dopo un po’ cominciano a svilupparsi secondo le logiche del gioco.

C’è tutto questo e molto altro, in questo film, che riesce a far ridere senza diventare irridente, senza pretendere di giudicare un gruppo di “white and nerdy” che hanno trovato una loro ragione di vita in una disciplina che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E’ al tempo stesso una parodia dei documentari d’inchiesta e un’inchiesta vera e propria, avvincente, coinvolgente e, nei suoi 79 minuti, assolutamente impeccabile. Se avete avuto vent’anni negli anni Ottanta, è roba da non perdere: ma lo è anche se avete qualche passione che monopolizza una buona parte del vostro tempo libero e che a volte diventa per voi più maledettamente seria di quanto non meriterebbe. Come ad esempio scrivere su un newsgroup.

Roma, Festa del cinema, 25 ottobre 2007

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=YPLjXjObEms&rel=1]
Il trailer del film su YouTube